23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

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di Antonio Polito

Usare il popolo per sistemare una partita politica, per risolvere un conflitto interno al proprio partito oppure come surrogato di una legittimazione elettorale, è sbagliato. Purtroppo anche in Italia questo corto circuito è già avvenuto

A differenza di Jo Cox e dei suoi bambini, che sono stati davvero derubati della vita, le vittime politiche del referendum britannico hanno perso solo potere e gloria. Però è impressionante osservare come la falce del Leave abbia decapitato un’intera classe dirigente, in modo trasversale, senza fare distinzioni. È caduto chi ha perso, David Cameron; è caduto chi ha vinto, Boris Johnson; se ne è andato chi ha trionfato, Nigel Farage; sta per essere cacciato chi si è barcamenato, James Corbyn. I Conservatori si accoltellano alle spalle, i Laburisti si scazzottano in pubblico. Il caos politico è totale. Volevano ridare il potere al popolo, ma il potere di scegliere il primo ministro da domani è nelle mani di 330 deputati tories. Perfino quelli cui il popolo ha dato ragione non sanno ora indicargli la strada da seguire.
Per quanto diretta possa diventare la democrazia, con i referendum o con i sondaggi o con la Rete, alla fine c’è sempre bisogno di qualcuno che la guidi. In inglese si dice «leader». Kenneth Rogoff ha segnalato sul Boston Globe che la maggior parte delle società «prevede per il divorzio di una coppia più passaggi, ostacoli e procedure di quante ne abbia previste il governo britannico per uscire dall’Unione europea». Gli si può rispondere: è la democrazia, bellezza. Ma che dire dei diritti delle minoranze, che sulla Brexit non erano né piccole né irrilevanti (ha votato Leave solo il 36% degli aventi diritto, hanno votato Remain i giovani, la città-stato di Londra, la Scozia, l’Irlanda del Nord)? Non sono le minoranze altrettanto care alla democrazia? O la democrazia è un gioco dei dadi, una roulette russa?
Ha scritto Sabino Cassese sul Corriereche il referendum è un esempio di «single issue politics». Al popolo, con una domanda secca, puoi chiedere se vuole salvare Gesù o Barabba; e non è detto, tra l’altro, che avrai la risposta giusta. Ma non puoi chiedere di considerare le innumerevoli, complesse ed epocali conseguenze che può avere la scelta tra Gesù e Barabba, o tra Cameron e Johnson. E infatti nel caso inglese né l’uno né l’altro sono stati in grado di dire cosa fare, dopo aver chiesto al popolo di farlo.
Il fatto è che in Gran Bretagna, dove non c’è una Costituzione scritta, non c’è nemmeno una legge che regolamenti i referendum. Li convoca il governo, quando gli pare e gli conviene (a quanto abbiamo visto, pure quando non gli conviene). E invece anche la democrazia diretta, di cui il referendum è la massima espressione, ha bisogno di regole per avere efficacia. E chi può scrivere le regole se non il Parlamento, massima espressione della democrazia delegata, cioè rappresentativa? Mettiamo che le prossime elezioni a Londra le vinca un leader pro Europa: chi avrebbe ragione? Il popolo sovrano che ha votato Leave o il popolo sovrano che ha eletto un governo per il Remain?
Noi per fortuna abbiamo una Costituzione. La quale prescrive all’articolo 138 che se vuoi cambiare la Carta e non hai abbastanza voti in Parlamento devi chiedere il permesso al popolo con un referendum. È per questo, e non perché l’abbia indetto Renzi, che a ottobre o giù di lì voteremo sulla riforma costituzionale approvata a (scarsa) maggioranza nelle Camere. Ma anche da noi, come nel caso inglese, l’idea di spruzzare un po’ di democrazia diretta sulla democrazia parlamentare come se fosse un cocktail, soprattutto quando la seconda è un po’ giù e si pensa di alzarne la gradazione alcolica con l’appello al popolo sovrano, può essere molto azzardata.
Usare il popolo per sistemare una partita politica, per risolvere un conflitto interno al proprio partito oppure come surrogato di una legittimazione elettorale, è sbagliato. Purtroppo anche in Italia questo corto circuito è già avvenuto. Già oggi la probabilità che al referendum si voti sul governo più che sulla Carta è elevatissima. Per giunta abbiamo da poco in vigore una legge elettorale che si è travestita anch’essa da referendum, e che nel ballottaggio ridurrà gli elettori a una scelta sì o no, pro o contro il governo. Il che raddoppia il rischio roulette russa appena visto all’opera in Gran Bretagna.
Può darsi che i nostri pifferai magici, i nostri incantatori di consenso popolare, siano più acrobatici di quelli inglesi e riescano ad evitare la fine di chi andò per suonare e fu suonato. Certo che a scherzare col fuoco prima o poi ci si brucia. L’Economist di questa settimana ha in copertina «Anarchy in the Uk». Facciamo in modo da meritarcene una diversa in autunno.

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