Non basta rifinanziare la sanità, perché soffre di malattie croniche che vanno al di là della disponibilità di risorse
I sondaggi dicono che gli italiani sono molto più preoccupati delle prestazioni della sanità rispetto all’anno scorso. Si susseguono voci inquiete: la sanità è dimenticata; più che un servizio, vi è un disservizio sanitario nazionale; il sistema sanitario è molto malato, o addirittura morto. Anche chi ritiene che il nostro Servizio sanitario nazionale sia tra i migliori al mondo, nonpuò ignorare che era una volta un fiore all’occhiello del Paese, mentre mostra ora segni di una malattia che ha attirato al suo capezzale molti medici, dalla Corte dei conti alla Fondazione Gimbe, all’Agenzia per la coesione territoriale, a numerosi studiosi.
Il Servizio sanitario nazionale, insieme con il sistema scolastico, costituisce uno dei maggiori successi della storia repubblicana. L’idea è figlia di un liberale inglese, che lavorò a stretto contatto con i laburisti, Lord Beveridge. Il suo «piano» è del 1942 ed era fondato sulla «libertà dal bisogno». Dell’idea si impadronì la cultura socialista negli anni ’60. Nel piano economico approvato con legge nel 1967, fu scritto che era necessario costituire «un compiuto sistema di sicurezza sociale, articolato in comuni, in province e nelle regioni e finanziato dallo Stato». «Il Servizio sanitario nazionale consentirà a tutti i cittadini di soddisfare le esigenze indispensabili per preservare e curare la propria salute». Questo obiettivo venne realizzato da una coraggiosa politica democristiana, Tina Anselmi, nel 1978. Seguirono modifiche e aggiustamenti dettati da Francesco De Lorenzo e poi da Mariapia Garavaglia nel 1992-93, da Rosy Bindi nel 1999 e dalla riforma costituzionale del 2001.
I segni più evidenti della malattia attuale del Servizio sanitario sono due. Il primo si è notato durante la pandemia, quando ogni regione è andata per conto proprio: si è avuta l’impressione che non vi fosse un Servizio sanitario nazionale, ma una confederazione di servizi regionali. Il secondo riguarda la mobilità sanitaria, per tre quarti dei casi relativa a ricoveri ospedalieri: in dieci anni il saldo negativo di tredici regioni del Sud nei confronti di quelle del Nord è ammontato a 14 miliardi.
Più complicato individuare segnali e cause della crisi, che non sono sempre da ricercare all’interno della stessa sanità. Ecco i tre più vistosi. Nonostante che le aspettative di vita media siano alte, una consistente quota della popolazione è in condizioni sanitarie difficili, sono deboli le cure primarie di base e fragile la sanità territoriale, anche per la emorragia dei medici di famiglia dovuta ai pensionamenti e a ricambi insufficienti. Di qui le carenze dell’assistenza sanitaria a livello distrettuale e dei servizi territoriali, come l’assistenza domiciliare integrata, e i vuoti dell’attività di prevenzione. Un secondo sintomo della malattia è costituito dai divari regionali in termini di aspettative di vita, di mortalità evitabile e di popolazione anziana con multicronicità, segni di un servizio che non riesce a rispettare i livelli essenziali di assistenza, considerati dalla Corte costituzionale «nucleo invalicabile di garanzie minime». L’ultimo sintomo è costituito dalle lunghe liste di attesa, e dall’incapacità del Servizio di affrontare le trasformazioni tecnologiche della medicina e di ridurre sprechi ed inefficienze.
Il Servizio sanitario nazionale è uno dei maggiori datori di lavoro del nostro Paese, con 670 mila dipendenti, che sono però diminuiti negli ultimi tempi. Paesi come l’Olanda, la Finlandia, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia hanno il doppio del personale, rispetto alla popolazione, di quello italiano. Mentre il numero dei medici italiani è in linea con i dati Ocse, quello degli infermieri è più basso. Dobbiamo preoccuparci anche di un altro aspetto: l’età media dei medici è quasi raddoppiata negli ultimi vent’anni. La spesa sanitaria è inferiore alla spesa media dei Paesi Ocse e Germania e Francia ci superano di almeno tre punti. L’aspetto più preoccupante è costituito dal fatto che la spesa pubblica per anno è di 130,4 miliardi di euro, mentre quella privata è di 41,5 miliardi, di cui una parte pagata dai pazienti di tasca propria. Vi è poi un forte divario di spesa per la sanità tra Sud e Nord, anche se questo non spiega da solo il divario dei servizi sanitari (vi sono altre cause, come erronea allocazione di risorse, inefficienza, clientelismo politico). I piani di rientro e i commissariamenti mirano al risanamento dell’equilibrio economico finanziario, ma non riescono ad incidere sull’efficienza del servizio. Secondo i dati della Corte dei conti, l’incidenza della spesa sanitaria sul totale della spesa regionale era di poco superiore al 62 per cento nel 2021, con andamento crescente negli anni: quindi, più della metà dell’attività regionale riguarda la sanità. Se si considera il valore che la finanza ha per la politica, e si ricorda la proliferazione dei vari sistemi delle spoglie introdotti nell’ultimo decennio del secolo scorso, si può immaginare, quindi, quanto sia importante la sanità per le forze politiche e quanto pericoloso il controllo della politica partitica su di essa.
Nel bilancio 2024, il governo ha stanziato per la sanità 3 miliardi, che non sono pochi, considerate le attuali difficoltà finanziarie. Saranno destinati prevalentemente a migliorare le retribuzioni del personale sanitario. Ma la sanità italiana è uno dei temi che ha bisogno di una «agenda seria e realistica», come ha scritto nei giorni scorsi il direttore di questo giornale, una agenda difficile perché è difficile stabilire quanti guasti derivino da finanziamenti decrescenti, quanti invece da scarsa capacità amministrativa, quanti da interferenze di interessi di forze politiche. Non basta rifinanziare la sanità, perché essa soffre di malattie croniche che vanno al di là della disponibilità di risorse. Non vi è coordinamento tra le regioni, incapaci di assicurare una collaborazione orizzontale. Manca un centro robusto: più autonomia di decisione della periferia comporta un centro che monitora, consiglia, segnala, suggerisce. Nella sanità si intrecciano la rete, che richiede collaborazione, e l’autonomia, che spinge a fare da soli. C’è bisogno che le regioni dispongano, rendendoli pubblici, di indicatori, superando le diversità nella tenuta dei conti. Questo vuol dire necessità di maggiori finanziamenti, ma anche qualche radicale riforma e una buona manutenzione, oltre allo sviluppo e alla diffusione della cultura dell’organizzazione sanitaria, indispensabile in presenza di un corpo sanitario così vasto. Possiamo sperare che tutto questo accada con una classe politica a cui riesce tanto difficile fermarsi e riflettere?