Il 18 luglio Giorgia Meloni si era autoesclusa dalla maggioranza che aveva eletto Ursula von der Leyen. Ieri con la scelta di Fitto la premier si è presa il ruolo di potenziale cerniera politica tra la coalizione che governa l’Europa e «l’altra destra»
C’è chi sostiene che le deleghe assegnate a Raffaele Fitto nella Commissione dell’Unione europea siano inferiori a quelle ottenute in passato da Paolo Gentiloni all’Economia. Ma, pur senza esagerare, la nomina a vicepresidente esecutivo non può essere sottovalutata. Il 18 luglio Giorgia Meloni si era autoesclusa dalla maggioranza che aveva eletto Ursula von der Leyen; e si temeva non fosse una parentesi. Ieri la premier ci è rientrata, di fatto, candidando un moderato che ha ottenuto Coesione e Riforme. E ora può affrontare il tema della sostituzione di Fitto nel governo da posizioni di forza, dopo settimane di passione; e smentendo chi in Italia la raffigurava isolata in Europa.
Meloni ha rilegittimato anche il gruppo di Ecr: i Conservatori non solo accusati di inclinazioni sovraniste ma sospettati di ambiguità verso il sostegno militare all’Ucraina. Von der Leyen, esponente del Ppe, ha retto agli attacchi della sua maggioranza di Socialisti, Liberali e Verdi. E ha permesso alla premier italiana di ripresentarsi come potenziale cerniera politica tra la coalizione che governa l’Europa e l’altra destra: seppure tra molte diffidenze. Questo dovrebbe in teoria ammorbidire l’atteggiamento della Lega nei confronti di Palazzo Chigi; e facilitare un rimpasto guardato finora col timore di far saltare gli equilibri interni.
Certo, la coincidenza tra l’annuncio della nuova Commissione e la conferenza stampa dei «Patrioti europei» anti-Ue a difesa di Matteo Salvini imputato sottolinea uno scarto ormai consolidato. Nonostante la solidarietà controversa datagli sul caso Open Arms, Meloni e il vicepremier leghista rimangono divisi sulle alleanze continentali. Ma non è una novità. E il colloquio previsto oggi a Palazzo Chigi tra Meloni e l’ex presidente della Bce e del Consiglio, Mario Draghi, può assumere adesso un profilo diverso. Sarebbe fuori luogo riproporre la narrativa d’ufficio sulla continuità tra il suo esecutivo di unità nazionale e l’attuale.
Si ridimensiona tuttavia anche la tesi di uno strappo traumatico. Il governo, o almeno FdI e FI, possono riprendere una strategia messa in forse dal «no» di luglio a von der Leyen, e ricalibrare le distanze dalla destra anti-Ue e filo-russa. L’epilogo della partita europea, però, dovrebbe suggerire maggiore prudenza quando si additano complotti dell’Ue contro l’Italia; e quando si evocano congiure interne per colpire il governo, che rischiano di diventare un alibi per non vederne limiti e errori. I sondaggi non registrano spostamenti nel voto. E questo dovrebbe dire qualcosa a tutti.
A Meloni dicono che i numeri le consentono di muoversi senza eccessivi condizionamenti politici, se si libera di quelli psicologici. Tra l’altro, dalle prime reazioni degli avversari, divisi sul «sì» a Fitto, si ha la conferma che il voto contrario di luglio era stato un favore alle sinistre. Ieri, infatti, si è visto che M5S e Avs, l’Alleanza tra Verdi e Sinistra, si preparano a opporsi all’equilibrio plasmato da Ursula von der Leyen, bollandolo come espressione di una Commissione «conservatrice». Il Pd, invece, pur tra molti tormenti sembra orientato al «sì» in nome dell’interesse nazionale.
Sarebbe un segnale spendibile anche sul piano interno, dopo una fase di muro contro muro declinato in ogni campo: dalle riforme istituzionali, alla magistratura, all’ordine pubblico, agli scandali. Invece di un elemento destabilizzante, il rimpasto può diventare dunque l’inizio di una nuova fase, che la nomina di Fitto anticipa e introduce: una scelta sofferta ma vincente, come si era intuito dall’incontro di martedì al Quirinale tra il ministro e il capo dello Stato, Sergio Mattarella.