Le conseguenze sui premi Nobel. Bisogna chiedersi se dobbiamo iniziare a pensare a una antropologia della civiltà delle macchine
Il 2024 è già destinato a lasciare in sospeso almeno un importante interrogativo sul futuro delle scienze: i due premi Nobel, uno per la Fisica e l’altro per la Chimica, appena annunciati e che saranno consegnati il 10 dicembre (l’anniversario della scomparsa del fondatore del premio), sono da considerarsi gli ultimi premi dei sapiens o i primi consegnati anche all’intelligenza artificiale? È una domanda chiave per capire se dobbiamo iniziare a pensare a una antropologia della civiltà delle macchine. La questione non è banale perché non è certo la prima volta che una tecnologia viene di fatto premiata accanto alla scoperta scientifica: basterebbe risalire al Nobel per la Chimica del 2020 che ha visto coinvolta la tecnica del Crispr-Cas9, il cosiddetto taglia & incolla del DNA. Ma in questo caso viene messo nero su bianco che l’AI ha contribuito, in qualche modo, a «capire».
È sicuramente il caso del premio per la Chimica, consegnato per metà allo scienziato David Baker e per metà a Demis Hassabis e John Jumper per il contributo dato grazie all’AI da loro sviluppata, AlphaFold, nello svelare uno dei rebus della biologia: come si ripiegano 200 milioni di proteine a partire dalla catena di amminoacidi? Non c’è coscienza (né magia) ma c’è scienza dietro l’AI. Hassabis, per inciso, è stato uno studente all’Mit del genovese Tomaso Poggio, uno dei pionieri dell’AI. Siamo tutti convinti che i dilemmi della tecnologia siano moderni, nati con i computer. Ma basterebbe sfogliare Il Conte di Montecristo per scoprire che lo stesso Alexandre Dumas, non certo uno scienziato, faceva dire a uno dei nemici di Dantés che il telegrafo avrebbe reso un solo uomo più pericoloso di Napoleone con la sua spada. Eppure nessuno in passato avrebbe dato una parte del merito al cannocchiale accanto a Galilei (pur essendo stato necessario per dimostrare le teorie copernicane). O alla fotografia 51 per la comprensione della struttura del DNA.
In parte la soluzione del dilemma iniziale si trova in una riflessione di Vito Volterra, il fondatore del Cnr: esistono casi in cui la scienza produce tecnologia e industrie (Volterra faceva l’esempio dell’elettricità nata nei laboratori come quello di Volta e nei dibattiti come quello sul galvanismo, con ampie ricadute anche sulla letteratura come con Frankenstein, per poi atterrare nelle imprese). Ma esistono casi in cui un fenomeno parte dalle fabbriche per essere compreso scientificamente solo dopo. È la storia del vapore: la sua applicazione ha portato a una delle più importanti scoperte scientifiche di sempre, le leggi della Termodinamica. Per inciso, in Volterra c’era già la spiegazione di cosa dovrebbe fare l’Europa, cioè far dialogare scienza ed economia, proprio come spiega il recente rapporto Draghi che affida all’innovazione e alla scienza il futuro stesso e la sopravvivenza della Ue stretta come un vaso di coccio tra Usa e Cina.
Ora volendo fare un parallelismo tra vapore e AI dovremmo optare più per il secondo caso evidenziato da Volterra che per il primo: sappiamo come si ripiegano 200 milioni di proteine (comunque una parte del tutto) ma non il perché. Se c’è una nuova termodinamica da scoprire non ne abbiamo indizi. La stessa struttura delle reti neurali artificiali che sono alla base di AlphaFold e che sono valse il Premio Nobel per la Fisica a Hopfield e a Hinton ce lo impediscono: tra dati e risultato (input e output) c’è il regno della cosiddetta black box. Anche gli esperti di «percettroni», come erano stati chiamati in origine i primi neuroni delle macchine, hanno difficoltà a ricostruire il percorso labirintico che ha portato proprio a quel risultato scientifico.
Senza contare che l’esercizio dell’errore aveva un suo ruolo pedagogico: oggi l’AI farebbe risparmiare a Edison i due anni che i prototipi di lampadine gli costarono per capire che il tungsteno era la soluzione. Ma con quei due anni sparirebbe anche tutta l’esperienza fatta. Per questo motivo, nonostante l’entusiasmo, dobbiamo rimanere prudenti nel considerare questi come i primi Nobel spartiacque della nuova era dell’AI. Sappiamo il come. Ma il perché per ora resta materia da comprendere per il cervello umano. E non è la stessa cosa. Il teorema di Fermat era noto da quando il matematico lo appuntò sul bordo delle pagine dell’Arithmetica di Diofanto di Alessandria. Era il 1637. Ma solo nel 1994 abbiamo potuto dire di averlo capito.