Fonte: Corriere della Sera
di Salvatore Rossi
L’Italia è ancora una nazione avanzata. Ma il divario fra imprese vincenti e perdenti si va allargando e fra le vincenti qualcuna potrebbe a decidere di andarsene
Segniampcii queste date: entro il 27 settembre il governo deve proporre al Parlamento la Nota di aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza) presentato nell’aprile scorso, in cui sono da riformulare gli obiettivi per il bilancio pubblico nei prossimi tre anni anche alla luce delle raccomandazioni nel frattempo giunte dalla Commissione europea; entro il 15 ottobre il governo deve inviare alla Commissione i nuovi obiettivi, sanciti dalla Risoluzione nel frattempo approvata dal Parlamento; entro il 20 ottobre il governo deve presentare al Parlamento il disegno di legge col bilancio di previsione completo per i tre anni successivi; entro il 31 dicembre il Parlamento deve varare il bilancio di previsione (ma ha tempo fino al successivo 31 gennaio per approvare i disegni di legge collegati). Se la scadenza di fine anno viene mancata, scatta il cosiddetto «esercizio provvisorio», regolato dall’articolo 81 della Costituzione. Dura non più di quattro mesi e consente al governo di tirare avanti con spese ed entrate ordinarie nei limiti rigidi del bilancio dell’anno prima. È una lista noiosa, pur se ridotta all’osso. Le procedure di bilancio, italiane ed europee, sono assai complicate, mal si prestano a racconti avvincenti. Ma in una situazione così in evoluzione dal punto di vista politico, il tema è di non poco conto.
Se il governo dovesse essere incaricato dei soli affari correnti in attesa di una chiarificazione politica o addirittura sioci queste date: entro il 27 settembre il governo deve proporre al Parlamento la Nota di aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza) presentato nell’aprile scorso, in cui sono da riformulare gli obiettivi per il bilancio pubblico nei prossimi tre anni anche alla luce delle raccomandazioni nel frattempo giunte dalla Commissione europea; entro il 15 ottobre il governo deve inviare alla Commissione i nuovi obiettivi, sanciti dalla Risoluzione nel frattempo approvata dal Parlamento; entro il 20 ottobre il governo deve presentare al Parlamento il disegno di legge col bilancio di previsione completo per i tre anni successivi; entro il 31 dicembre il Parlamento deve varare il bilancio di previsione (ma ha tempo fino al successivo 31 gennaio per approvare i disegni di legge collegati). Se la scadenza di fine anno viene mancata, scatta il cosiddetto «esercizio provvisorio», regolato dall’articolo 81 della Costituzione. Dura non più di quattro mesi e consente al governo di tirare avanti con spese ed entrate ordinarie nei limiti rigidi del bilancio dell’anno prima. È una lista noiosa, pur se ridotta all’osso. Le procedure di bilancio, italiane ed europee, sono assai complicate, mal si prestano a racconti avvincenti. Ma in una situazione così in evoluzione dal punto di vista politico, il tema è di non poco conto.
In realtà entrambi gli spauracchi sono come minimo discutibili. Il primo è certamente possibile ma dipende dal ragionamento degli investitori: se l’esercizio provvisorio servisse — potrebbero pensare — a favorire un chiarimento politico e a far nascere un governo più coeso e pro-mercato di quello attuale potrebbe essere il male minore, tra l’altro vincolando molto le spese e quindi migliorando l’equilibrio di bilancio. Il secondo spauracchio è anch’esso dai contorni indefiniti. Se l’Iva aumenta si produce certamente un effetto ceteris paribus restrittivo sull’economia ma i «moltiplicatori» sono normalmente molto più piccoli di quelli di altre tasse, a meno che consumatori e investitori non si siano fatti influenzare da chi ha demonizzato in questi mesi e anni gli aumenti dell’Iva e non aggiungano un «effetto-sfiducia» negativo comprimendo ancor più le loro spese.
Insomma non mi pare che date e procedure di formazione del bilancio pubblico pongano di per se stessi ostacoli certi e insormontabili al ciclo politico. I problemi veri sono due. Il primo è che il progetto di bilancio per il 2020 è molto complesso, non solo per la questione Iva, ma anche per i precari rapporti del governo italiano con l’Europa, a cui gli investitori finanziari guardano come all’indicatore più importante della solvibilità ultima del debitore Italia; ci vuole un governo, appunto, coeso e determinato per affrontare l’arduo compito. Il secondo problema è ancora più generale. Lo squilibrio del bilancio pubblico è un tema assai importante ma quello veramente decisivo, su cui si giocano i destini del Paese, è la capacità dell’Italia di far tornare a crescere l’efficienza con cui si producono tutti i beni e i servizi scambiati, e in ultima analisi la sua economia, dopo un quarto di secolo di quasi stagnazione. E questa è più una faccenda di regole che di soldi pubblici, anche se questi ultimi possono servire.
Il ruolo delle politiche economiche e sociali per raddrizzare la baracca non è tanto quello di sovvenire chi consuma a colpi di debito pubblico, ma di correggere l’ecosistema normativo e, sì, anche fiscale in cui sono immersi i soggetti da cui efficienza produttiva e produzione dipendono, cioè le imprese. L’Italia è ancora un Paese avanzato perché ha ancora imprese che combattono ad armi pari sui mercati internazionali. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ne hanno offerto degli esempi su queste colonne giorni fa; l’Istituto per il Commercio con l’Estero, presentando il 23 il suo Rapporto annuale (peraltro monco della sintesi preparata dal Comitato editoriale, i cui membri accademici si sono dimessi a seguito di ciò), ha rimarcato il punto. È che il divario fra imprese vincenti e perdenti si va allargando sempre di più e fra le vincenti qualcuna potrebbe anche decidere di abbandonare l’Italia. Non possiamo permettercelo. Le cose da fare sono note da tempo (ordinamento giuridico, istruzione, amministrazione pubblica e così via), il problema è come farle in modo politicamente realistico. Su questo dovrebbe concentrarsi la discussione pubblica. fosse a rischio elezioni anticipate gli atti previsti dalle procedure sarebbero politicamente improponibili, al di là delle formalità. Si prefigurerebbero due conseguenze possibili: chi ha in mano i titoli del debito pubblico potrebbe allarmarsi per l’incertezza politica e far salire il famigerato spread; inoltre, scatterebbero gli aborriti aumenti dell’Iva (l’anno prossimo dal 22 al 24,2% l’aliquota ordinaria, dal 10 al 12% quella agevolata) previsti dalle leggi vigenti in assenza di nuovi provvedimenti.