Fonte: Corriere della Sera
di Roger Abravanel
Esiste un fronte contrario alla valutazione come strumento per orientare i finanziamenti. Ma questa è l’unica strada per evitare nepotismo e inciuci
Nel 1994, Carlo Azeglio Ciampi creò l’Osservatorio per la valutazione del sistema universitario per orientare i finanziamenti pubblici alle università. Ma la «autovalutazione» portò a pochi risultati (come peraltro prevedibile). Nel 1999 nacque il Civr (Comitato per l’indirizzo per la valutazione della ricerca) e anche esso produsse ben poco. Nel 2006 viene creato l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione della ricerca) che ha coinvolto 15 mila esperti per valutare le produzioni di ricerca dei singoli atenei e, per la prima volta, il ministero ha iniziato a utilizzare la sua valutazione come base per una quota «premiale» dei finanziamenti pubblici.
Da allora continuano le critiche che in questi giorni di gennaio sono esplose con la richiesta della Flc-Cgil (uno dei sindacati dei docenti universitari e degli insegnanti) di «fermare la valutazione Anvur del triennio 2015-2019… superare la logica che insegue pseudo eccellenze, abbandonare le valutazioni quantitative…». Il sindacato critica soprattutto il fatto che, utilizzando la valutazione, il ministero è arrivato ad assegnare un terzo dei finanziamenti pubblici in modo premiale e che «ciò contribuisce significativamente alla progressiva divaricazione tra gli atenei» (leggi: i migliori si rafforzano e i peggiori si indeboliscono). E minaccia azioni legali.
Il 16 gennaio anche il Cun (Consiglio universitario nazionale) boccia l’Anvur evidenziando in più «il concreto rischio di una possibile quanto deformante applicazione degli esiti della valutazione ai singoli ricercatori» — leggi: siccome la valutazione degli atenei è basata sulla media delle valutazioni dei singoli ricercatori, esiste il (terribile?) rischio che il merito valutato non sia quello collettivo ma quello individuale.
La realtà è che siamo ben lontani dalla logica del winner takes all e di «divaricazione» eccessiva paventata dai sindacati. Infatti il 28% di quota premiale, grazie anche a vari meccanismi di perequazione, si traduce in un 34% di premio per il «migliore» (Ca’ Foscari) e di un 22% per il «peggiore» (Messina e Macerata). Alla fine, il migliore ha il 6% in più della media di 28% e il peggiore 6 punti in meno. Contrariamente a ciò che sostengono le critiche, l’università è tutt’altro che dilaniata da una feroce competizione.
Le critiche a qualunque misura obbiettiva del merito(che non sia una «autovalutazione») continuano però imperterrite e recentemente si sono estese dall’Anvur all’Erc (European Research Institute) che dal 2007 ha dato un premio di 2 milioni (in 5 anni) a 10 mila progetti di ricercatori eccellenti (anche italiani). Si critica un presunto scambio tra Erc e posto fisso perché il singolo ricercatore premiato porta i 2 milioni in dote a un ateneo richiedendo talvolta in cambio un posto fisso.
Intendiamoci, l’Anvur non è sicuramente perfetta (chi scrive ne evidenziò le criticità su questo quotidiano qualche anno fa), ma è una buona base da cui partire. Invece viene bocciato senza appello, come peraltro avviene per gli Erc, l’Invalsi, i ranking internazionali (Times, QS ecc.) e fa nascere il sospetto che sotto sotto si voglia continuare con i metodi del passato che hanno prodotto nepotismo e inciuci in molti atenei, al punto di fare intervenire la autorità anti corruzione. E così, mentre in tutto il mondo le università sono i templi del merito da noi sono diventati i bastioni del nepotismo.
La lentezza dell’approccio nell’introdurre quote premiali da parte del ministero potrebbe quindi portare a critiche di natura esattamente opposta. Siamo davanti al solito inciucio gattopardesco che introduce quote premiali per lasciare tutto come prima? Non è così. Il ministero è stato obbligato al gradualismo nel ridurre la ridistribuzione «a pioggia» dei finanziamenti (con formule e perequazioni varie frutto della massima italica creatività) perché le università italiane sono da anni decisamente sottofinanziate. La politica ha infatti preferito finanziare età di pensionamento ultragenerose e il «piccolo è bello» non ha fatto nascere grandissime aziende italiane che sono quelle che all’estero finanziano la ricerca e assumono i laureati. Con finanziamenti per l’università che non crescono, la quota premiale alla fine riduce i finanziamenti ai «perdenti» della (pur embrionale) competizione, i quali però non possono ridurre gli stipendi ai ricercatori già sottopagati e tantomeno mandarli a casa perché sono dipendenti pubblici. E quindi si oppongono in tutti i modi alle quote premiali che ne minacciano la sopravvivenza.
Purtroppo mentre i docenti critici della meritocrazia sfruttano la loro cultura e la loro autorevolezza per criticare l’Anvur e si inventano algoritmi per dimostrare che è una bufala, continua l’esodo dei «cervelli» italiani e i nostri atenei continuano a perdere terreno nelle classifiche internazionali che ogni anno dimostrano tutte che non c’è un nostro ateneo tra i primi 100 del mondo. Quando sono accettate (di malavoglia), vengono sdrammatizzate (un docente è arrivato a celebrare che ne abbiamo più di tutti tra le prime 1000!).
Si può andare avanti così per un altro quarto di secolo? Assolutamente no, perché nei prossimi anni le università di tutto il mondo si troveranno a fronteggiare sfide epocali, al punto che una ricerca («An avalanche is coming») prevede che la metà di loro spariranno nei prossimi 20 anni. I costi stanno esplodendo, le lauree online anche e le università cinesi guadagnano posizioni nelle classifiche. La competizione globale è una vera e propria «valanga» che si sta abbattendo su tutte le università e il rischio è che anche i nostri migliori atenei, già oggi non in posizioni di grande livello, vengano ulteriormente marginalizzati.
C’è però una buona notizia. Oggi la politica sembra finalmente d’accordo in modo bipartizan sull’urgenza di aumentare i fondi per le università. Ciò crea un’occasione unica perché potrebbe farlo attribuendo i fondi aggiuntivi agli atenei migliori senza però ulteriormente penalizzare i più deboli. La politica dovrà quindi decidere da che parte sta: con i critici antimerito o con chi vuole davvero alla fine realizzare il sogno di Ciampi.