Il Pd deve scegliere se puntare ad allearsi con i 5 Stelle o con quello che possiamo forse definire il nuovo «Partito repubblicano», ossia con Calenda e Renzi
Tanto ciò che fanno un governo e la sua maggioranza quanto ciò che accade all’opposizione decidono il futuro di una democrazia. Nei primi tempi, ragionevolmente, sul governo che formerà Giorgia Meloni non ci sarà molto da dire. Per cominciare a esprimere giudizi su un nuovo esecutivo occorre almeno aspettare che abbia completato il rodaggio. Un primo bilancio, se scevro da pregiudizi, non si può fare se non dopo alcuni mesi . Tanto più in una fase così difficile come l’attuale. Si potrà solo commentare inizialmente la composizione del futuro governo, la scelta delle varie personalità che occuperanno i ministeri, eccetera. Ma con la cautela che è sempre necessaria in questi casi.
L’interrogativo principale riguarda i comportamenti che adotterà Matteo Salvini. In queste elezioni è stato sconfitto, al pari di Enrico Letta, ma è uno sconfitto, come egli stesso ha tenuto a precisare , che siede con i vincitori. Salvini è, nel suo partito, statutariamente protetto, ed è difficile per i tanti leghisti che vorrebbero sostituirlo riuscire presto nell’impresa. Per conseguenza, l’ipotesi più plausibile è che egli, cercando la massima visibilità possibile, voglia rendere faticosa la navigazione del futuro governo. Pare che abbia già cominciato. È normalmente ciò che fanno i leader in difficoltà. Facciamo un esempio. È probabile che la nuova presidente del Consiglio voglia cercare di instaurare un modus vivendi con Bruxelles, Parigi e Berlino che sono rapporti essenziali per l’Italia. In tal caso le difficoltà e l’imbarazzo sarebbero notevoli se dai fedelissimi di Salvini partissero continue bordate contro l’Europa, contro Bruxelles, contro Francia e Germania.
Ma il futuro di una democrazia non dipende solo da ciò che farà il governo. Dipende anche da come andrà a riorganizzarsi, dopo la sconfitta, l’opposizione, componente altrettanto essenziale del governo nel gioco democratico.
Con la serietà e lo stile che lo caratterizzano Enrico Letta, preso atto della sconfitta, traghetterà il partito fino al congresso e si metterà da parte. Non è esagerato definire drammatiche le scelte che ha di fronte a sé il Pd. Da quelle scelte dipenderà il futuro dell’opposizione e quindi, anche, in larga parte, quello della democrazia italiana. Si dice che il Pd non abbia una identità. Ma il suo problema è che ne ha troppe. Per questo Letta ha dovuto fare l’equilibrista fra le opposte fazioni, con le loro diverse visioni del mondo. Per questo è stata trasmessa agli elettori un’immagine confusa e insipida.
Per orientarci, e per rispettare le convenzioni, usiamo i termini che definiscono la tradizionale, storica, divisione della sinistra, quella fra massimalisti e riformisti. Anche se con adattamenti ai tempi, quella divisione esiste tuttora, entro e a ridosso del Pd. Sceglierà quel partito di diventare ciò che non è mai stato sul serio, ossia un autentico partito riformista? In tal caso, la strada è tracciata: netta chiusura verso i 5 Stelle e incontro con quello che possiamo forse definire il nuovo «Partito repubblicano», ossia con Calenda e Renzi. Oppure, come propone la sua (forte) componente massimalista, sceglierà l’alleanza con i 5 Stelle, la nuova Lega Sud? Per dirla con Renzi, opterà per il jobs act o per il reddito di cittadinanza? Il riformismo o l’assistenzialismo di stampo peronista? Con tutte le differenze del caso, il Pd ricorda il Partito socialista di Pietro Nenni all’epoca del Fronte Popolare. La scelta di allearsi con il partito antisistema di allora, il Partito comunista, venne pagata cara dai socialisti. E costrinse i riformisti ad andarsene (con la scissione di Palazzo Barberini del 1947 e la nascita del Partito socialdemocratico). C’è da scommettere che, in caso di alleanza o convergenza, sarebbero i 5 Stelle alla fine, checché ne pensino i massimalisti del Pd, a fagocitare il loro partito.
L’apertura ai 5 Stelle, quale che sia il prezzo che il Pd pagherebbe nel medio-lungo termine, è in un certo senso la scelta più facile e forse persino più ovvia. In questo modo il Pd non lascerebbe a Conte e ai suoi il monopolio dell’opposizione urlata, più vociante, contro il governo. E inoltre, darebbe soddisfazione a quella parte, a occhio molto ampia, del Pd che si sente affine ai 5 Stelle, che non ha vere ragioni di contrasto con loro.
L’altra strada, quella riformista, è assai più difficile. Fare l’opposizione responsabile è più complicato che fare l’opposizione urlata. Ma soprattutto obbligherebbe il Pd a fare i conti con il proprio passato. Dovrebbe chiedersi se andare d’accordo con Bruxelles sia sufficiente per meritarsi la patente di partito riformista. Dovrebbe chiedersi cosa c’entri con il riformismo limitarsi a garantire l’impiego pubblico (anziché gli utenti delle amministrazioni) o gli insegnanti (anziché, con una scuola di qualità, gli studenti). O difendere l’ordine giudiziario così come è (si veda il «no», altamente simbolico, al referendum sulla separazione delle funzioni fra giudici e procuratori). O continuare ad essere il partito delle tasse, il partito interessato solo a ridistribuire la ricchezza presente («colpire i ricchi»), anziché impegnarsi, in una Italia che non cresce economicamente da decenni, anche per favorire la ripartenza del Paese, per aumentarne la ricchezza complessiva. Insomma il Pd dovrebbe dolorosamente occuparsi del populismo di casa propria. Il premio sarebbe la creazione di una forza assai più dinamica della attuale, magari anche capace di vincere le prossime elezioni.
Operazione ardua. Tanto più perché la componente autenticamente riformista del partito — la parte che è rimasta, che non se ne è andata all’epoca della scissione di Renzi — è uscita indebolita da queste elezioni.
Naturalmente, il futuro, anche quello del Pd, non è già scritto. È proprio nelle fasi più drammatiche della vita delle organizzazioni che possono emergere leader capaci di smentire pronostici, bloccare la discesa lungo il piano inclinato, cambiare un destino che sembrava già scritto. Si pensi, ad esempio, al Midas, all’ascesa di Bettino Craxi nel 1976 al vertice di un Partito socialista che tanti osservatori giudicavano ormai finito. Di norma, le piccole oligarchie che hanno fatto il bello e il cattivo tempo in quelle organizzazioni e del cui declino sono in larga parte responsabili, fanno fuoco di sbarramento. Sanno o, quanto meno, intuiscono, che l’eventuale successo del leader segnerebbe la loro fine.