EDITORIALE
di Enrico Cisnetto Fonte: Terza RepubblicaLa rottura dentro Sel, con la fuoriuscita di un gruppo destinato a costituirsi come “sinistra renzista”, è un passaggio della nostra vita politica molto più significativo di quanto non possa far pensare la scissione di quell’atomo cui si è ormai ridotto il variopinto movimento arcobaleno e più in generale tutto ciò che sta oltre il Pd.
È importante perché questa attrazione di una parte della sinistra antagonista verso Renzi – l’effetto calamita, come l’ha chiamato Stefano Folli – avviene proprio mentre il segretario del Pd costringe il suo partito, e in particolare ciò che di vecchio e ideologico vi resta dentro, ad accettare una virata su posizioni “blairiane” nell’intento, riuscitogli alle elezioni europee più di quanto lui stesso non sperasse, di intercettare il consenso degli italiani moderati, fin qui elettori del centro o addirittura della destra. È vero che nel perseguire questo obiettivo Renzi usa a profusione il populismo, e questo aiuta a tenere insieme gli opposti. Tuttavia, acchiappare il buon Migliore e compagni proprio all’indomani del 41% raggiunto con i voti ex montiani ed ex berlusconiani, non è cosa di poco conto. Che incorona definitivamente Renzi come re della politique politicienne. Il che gli attribuisce un merito – che per esempio, Berlusconi non si è mai guadagnato, con quel suo definirsi estraneo al “teatrino della politica” – ma gli affibbia anche una pesante responsabilità. Perché tutto questo svuota di significato politico e di peso contrattuale le opposizioni – sul tema, ottima l’analisi offerta da Alessandro Campi sul Messaggero di venerdì – caricandogli sulle spalle il peso del residuo di credibilità che gli italiani annettono alla politica e alle istituzioni.
Ecco, questo è il vero snodo che abbiamo di fronte: Renzi ha riacceso la speranza, ha riavviato il motore della fiducia, ma nel farlo ha creato le condizioni per giocare la partita da solo. Difficile dire – siamo nel campo della psicanalisi – se si sia trattato di una scelta o solo di un’involontaria conseguenza, ma è così. E ora, per il bene suo e nostro, deve saper rispondere a cotanta aspettativa. Cosa significa? Che se finora ha fatto la partita usando la tattica del lanciare la palla in avanti, continuamente, senza mai fermarsi – da maestro, gli va riconosciuto – adesso deve cambiare passo e fare qualche goal. Anzi, deve segnare reti pesanti, che facciano davvero risultato e non siano solo illusioni ottiche. Prima di tutto sul terreno dell’economia, dove alla fine si decide davvero il game. E poi nel campo delle riforme istituzionali, senza le quali anche le azioni relative all’economia, per quanto siano strategiche, rischiano di avere corto respiro.
Il fatto è, però, che Renzi per rimettere in moto la speranza e la fiducia –strumento con cui ha conquistato il consenso largo che abbiamo visto – ha dovuto far ricorso ad un’arma pericolosa: l’ottimismo fuori misura. Ha raccontato che la crisi è finita e che le mosse del governo fatte fin qui sono le premesse per riavviare la ripresa. Ma siccome non è così, purtroppo, ora deve rapidamente rendersi conto di aver impugnato il coltello dalla parte della lama. E provvedere a cambiare verso. Per esempio, per restare all’economia, è il momento di decidere se vogliamo continuare a credere e far credere che questa sia una crisi solo dal lato della domanda, per cui la ripresa possa essere generata prevalentemente da un aumento dei consumi, o se invece prendiamo finalmente atto che il nodo più grave da sciogliere è quello dell’offerta e quindi, prima di tutto si mette mano ad un grande piano di investimenti, pubblici e privati. Nel primo caso, non ci resta che continuare con la politica degli “80 euro” – efficace nel brevissimo e comprensibile in clima elettorale, ma priva di respiro strategico – nel secondo, sarà opportuno che dalle parti di palazzo Chigi si attrezzino a capire che a fronte di una situazione straordinaria occorre attivare strumenti altrettanto straordinari. Magari leggendo due libri istruttivi. Uno, di Laterza, è opera di una economista italiana di nascita e inglese d’adozione, la professoressa Mariana Mazzucato, che insegna “Economia dell’Innovazione” alla University of Sussex. Si tratta di “The Entrepreneurial State”, che ha avuto grandi apprezzamenti da Financial Times, New York Times e Newsweek e che in Italia è stato tradotto con un titolo eloquente: “Lo Stato Innovatore”. In esso si offre un’analisi “non convenzionale” di come uscire dalla crisi. In particolare, va colto il suggerimento che per realizzare quelle “innovazioni rivoluzionarie” di cui abbiamo bisogno, ci vogliano politiche pubbliche – risorse e progetti industriali – che altrimenti il mercato da solo non è in grado di innescare. L’altro volume è quello che Giorgio La Malfa ha scritto per Feltrinelli: “Cuccia e il segreto di Mediobanca”. Nonostante che a scriverlo sia un’economista, non è un libro di macro-economia, bensì il ritratto dell’uomo più straordinario di cui il capitalismo italiano abbia mai potuto disporre. Tuttavia, esso – oltre che di grande godibilità e ricco di documentazione inedita – è prezioso proprio in questa fase in cui l’Italia deve decidersi, dopo la lunga stagione del “non governo” (la Seconda Repubblica) e quella dell’austerità, ad imboccare finalmente la strada della “ricostruzione”. Già, qui sta l’essenza “politica” della storia del fondatore di Mediobanca raccontata da La Malfa: come ricostruire il Paese. Lui, con la sua creatura, e l’Iri di Beneduce, lo fecero dopo la guerra. Leggendo quella storia, si possono trarre molti insegnamenti per come ripetere il miracolo oggi, dopo la guerra economica che ha sconvolto il mondo e che, non casuale maledizione, ha fatto pagare proprio a noi il prezzo più alto.
Il senso di entrambi i libri è un imperativo: investimenti, investimenti, investimenti. Solo quelli, non altro, ci possono consentire di uscire dal declino. E sono proprio la benzina che è mancata all’Italia, che in Europa dal 2007 ad oggi è seconda solo alla Spagna per l’entità della caduta degli investimenti (per capirci, circa il doppio della caduta dei consumi privati).
Possiamo discutere dove trovare le risorse – ma oggi la liquidità non è più un problema – e quale dosaggio occorra tra investimenti pubblici e privati, ma non si può negare che il nodo vero sia questo. Molto può e deve fare l’Europa. Ma in attesa che Bruxelles riconosca l’esigenza di affiancare al patto fiscale un “growth compact”, bisogna cominciare a far da soli. È qui che Renzi deve dimostrare di saper fare goal.