Fonte: Corriere della Sera
di Goffredo Buccini
Il problema sta nella corrispondenza tra formule politiche e realtà sociali. La caccia ai centristi non ha senso se il centro non ritrova la sua gravità permanente tra gli italiani
L’Italia si governa al centro, diceva Ciriaco De Mita, che di quel centro fu sommo sacerdote. Ma era ancora l’Italia degli anni Ottanta, prima del terremoto antipolitico di Tangentopoli, prima dell’eutanasia dei partiti nella Seconda repubblica. Quando c’erano le sorbe, canterebbe Paolo Pietrangeli. E, soprattutto, quando c’era il ceto medio, naturale piedistallo sociale del centro politico, sangue e carne del moderatismo liberale. Senza borghesia nessuna democrazia, preconizzò Barrington Moore più di mezzo secolo fa, ed è difficile dargli torto adesso, specie dalle nostre parti, dove il moderatismo è stato dato per morto e anche la borghesia non si è sentita tanto bene.
Forse non solo per tattica, ma per il naturale bisogno di stabilità causato dalla tempesta perfetta dentro cui ci dibattiamo (una pandemia ancora fuori controllo con vaccinazioni di là da venire; una voragine economica e sociale che andrebbe colmata da un Recovery plan ancora da definire; la crisi al buio di un esecutivo che avrebbe dovuto governare entrambi i passaggi), il centro è assai nominato e ricercato nelle sue varie incarnazioni di questi giorni, si chiami Centro democratico o Cambiamo, Più Europa o Unione di centro, sia fatto di costruttori o di responsabili, di brunettiani in libera uscita o di vegani dall’animo mite che evitino al Paese il piano inclinato di una campagna elettorale di nuovo inquinata da promesse iperboliche, che sono il sale del populismo, di destra e di sinistra, e il cianuro dell’opinione pubblica. Tra Orbán e Maduro, del resto, verrebbe naturale a molti optare per una soluzione intermedia e meno incendiaria, virando perfino su Quagliariello e la Binetti. Preferirei di no, ha detto infine l’America, di fronte alle corna ansiogene del suprematismo trumpista, scegliendo Sleepy Joe, un nonno che più nonno non si può.
Ma è davvero così? Non tanto, non sempre. Vale anzitutto la pena ricordare che nemmeno tre anni fa gli italiani hanno tributato oltre metà dei consensi ai populisti, eleggendo un Parlamento-sciarada: il quale ha dapprima prodotto il caso unico al mondo di due partiti populisti rivali incastrati nell’esecutivo Conte 1 e, da ultimo col governo Conte 2 appena caduto, ha visto a guida populista sia la maggioranza (con i Cinque Stelle) che l’opposizione (con Salvini e la Meloni), con le difficoltà di comporre un mosaico razionale che sono sotto gli occhi di tutti. È possibile, come sostengono Ilvo Diamanti e Marc Lazar (in Popolocrazia, Laterza 2018) che i populisti cambino, «se non vogliono restare confinati nella protesta», e che alla fine diventino insomma un po’ centristi, contribuendo al funzionamento del sistema «a rischio di perdere la loro dimensione contestataria». Moderandosi. E, certo, Di Maio è moderatissimo, non più solo nell’abbigliamento e nella pettinatura, avendo superato la scapigliatura adolescenziale in cui chiedeva l’impeachment di Mattarella via talk show; e Salvini diventa così moderato, quando al mattino parla con Giorgetti, da resistere ai pruriti antieuro di Borghi e Bagnai all’ora del tè. Entrambi, come rileva Venanzio Postiglione, sembrano, almeno a parole, sensibili a una nuova «stabilità». È possibile inoltre che gli elementi di proporzionalismo dell’attuale legge elettorale o addirittura il sistema proporzionale puro, da molti vagheggiato, rafforzino l’opzione centrista. Ma il pericolo di immaginare un’operazione tutta politica (o politicista), senza lavorare sulla base sociale, sta nei numeri che hanno portato alla crisi di questi anni.
Nel 2000, secondo l’Ocse, un lavoratore italiano guadagnava ogni anno 29.134 euro (rivalutati a oggi): un francese e un tedesco ne prendevano rispettivamente 3 mila e 6 mila di più. Vent’anni dopo, l’italiano è ancora a 30 mila euro, il francese a 39 mila e il tedesco a 42 mila. Tra i Paesi del G7, il reddito delle famiglie italiane è l’unico a stare sotto ai valori del 2007 (del 16%). Massimiliano Valerii del Censis spiegava che la globalizzazione, «presentata come la tavola imbandita cui tutti avremmo potuto accomodarci», ha lasciato indietro deboli e vulnerabili, producendo forgotten men in America ma anche muri, barriere e fili spinati in Europa. Una stagione gelata, peggiorata dal Covid-19, per noi più fredda che per altri. Borghesia o ceto medio che lo si voglia chiamare (per De Rita non sono sinonimi, solo la prima avendo coscienza di sé), questo pezzo di Italia non ha abbandonato le posizioni moderate per improvviso ribellismo, ma per paura e disperazione. Sociologi e demografi in coro denunciano da almeno dieci anni la rottura dell’ascensore sociale, certificata ancora la scorsa estate da statistiche che ci vedono svettare in Europa per abbandono scolastico, sopra la media del 3%, e sprofondare con un meno 14% nella media dei laureati: ormai la differenza la fanno le famiglie d’origine. Famiglie che al Sud, scontando anche la diseguaglianza territoriale, vedono espulsi da una società immobile i figlioli «che hanno investito in formazione e conoscenza», spiegano Luca Bianchi e Antonio Fraschilla in Divario di cittadinanza (Rubbettino, 2020). Divario e diseguaglianza sono, evidentemente, parole chiave su cui lavorare se si immagina un centro, o comunque un polo moderato, che esista in Parlamento come punto di equilibrio tra pulsioni e interessi contrapposti e non solo come stampella tattica.
La stabilità non sta necessariamente nei sistemi elettorali (benché sul proporzionale qualche dubbio sia lecito): sta nella corrispondenza tra formule politiche e realtà sociali. Così non avrà molto senso questa affannosa caccia ai centristi di oggi e di domani se il centro politico non ritroverà la sua gravità permanente tra gli italiani in carne e ossa. Come? Riformando e sbloccando il Paese senza dimenticare chi è rimasto indietro negli ultimi vent’anni di questa corsa. In caso contrario, i populisti che emergeranno domani ci faranno apparire questi, ormai istituzionalizzati, come amiconi da circolo del golf.