Fonte: Corriere dell Sera
di Dario Di Vico
Dobbiamo chieder ai loro abitanti delle zone centrali delle città di mettersi a disposizione per ricreare una connessione con il Paese reale. Lasciare da parte l’arroganza basata su un’indimostrabile superiorità antropologica e sporcarsi le mani con la difficile costruzione di una società dei tanti
Dopo aver letto i commenti sulle recenti elezioni amministrative e soprattutto sugli esiti del referendum si può tranquillamente dire che i residenti nelle cosiddette Ztl, le zone a traffico limitato del cuore delle nostre città, non godano di buona reputazione. Nel migliore dei casi vengono raffigurati come dei super-privilegiati perché possiedono belle case in posizione centrale, hanno ruoli apicali nelle aziende o sono liberi professionisti di vaglia, godono di buoni consumi culturali, possono permettersi le migliori scuole per i loro figli e vivono di fatto in una bolla di autoreferenzialità. Tanto che sarebbero portati a credere che le loro convinzioni, o al contrario le loro idiosincrasie, dovrebbero essere condivise universalmente.
Attorno alle Ztl e ai loro seggi elettorali troviamo come contraltare l’oceano delle disuguaglianze, abitato da una pletora di naviganti che combatte quotidianamente con le contraddizioni di una società scucita come quella italiana di oggi, dall’orientamento scolastico dei figli al parcheggio sotto casa.
Oltre l’aspetto politico-culturale a giocare contro la reputazione pubblica degli abitanti delle Ztl c’è anche tutta la narrazione della gentrification. In sostanza il loro insediamento nei centri storici si sarebbe realizzato nel tempo grazie all’espulsione dei vecchi abitanti per problemi di reddito e delle attività artigianali a scapito delle risotterie.
A loro discolpa gli abitanti delle Ztl finora hanno ricordato che le contraddizioni città-campagna (come le sintetizzano i sociologi) non sono una peculiarità italiana ma riguardano l’intero Occidente, con le città che sfoggiano supermercati bio e palestre smart ad ogni angolo e i piccoli centri di provincia nei quali si apprezza sempre la buona tavola senza badare al colesterolo e l’auto è ancora uno status symbol. Tutti comportamenti che poi tradotti nel voto di qualsiasi turno elettorale producono l’effetto di città a maggioranza progressista e di campagne in cui prevale largamente la destra. Gli esempi sono infiniti, mi limito a sottolineare come persino nelle elezioni della Croazia si sia registrata una dinamica analoga. O a ricordare come il Financial Times in occasione delle ultime votazioni inglesi avesse rintracciato un nesso tra la numerosità dei punti vendita della catena Pret a Manger (cibi freschi e bio) presenti sul territorio e la preferenza data ai laburisti. Una difesa meno distratta del club Ztl potrebbe aggiungere alle considerazioni derivanti dal raffronto internazionale una lunga lista di buone pratiche. Una su tutte la percentuale di adesione alla raccolta differenziata oppure una maggiore attenzione ai rapporti uomo-donna. Ma resteremmo comunque nei confini di un’arringa difensiva: ciò che si ha timore di dire è che, pur con tutti i loro insopportabili birignao, le Ztl racchiudono un ecosistema di classe dirigente in una stagione nella quale prevalgono invece, nella politica come nella comunicazione, modelli demagogici e oltranzisti. Che inducono a disprezzare l’operato dei costruttori di senso e dei sarti della società ed esaltano le performance dei cacciatori di like.
Ma sono sufficienti queste considerazioni ad assolvere i residenti delle zone esclusive? Francamente no, penso che citarle in giudizio sia giusto e proficuo, possa persino contribuire a rivitalizzare una democrazia palesemente stanca, a patto però di individuare correttamente i capi di imputazione. Provo a formularne due. Il primo riguarda la mobilità sociale. Gli abitanti delle Ztl danno l’impressione di voler difendere i confini del loro fortino e perpetuare la condizione di privilegio materiale e immateriale per trasmetterla senza colpo ferire e senza nessun merito ai propri figli. Ora è vero che suscita dubbi la proposta di bastonare fiscalmente i trasferimenti ereditari (sarebbe probabilmente un assist alla destra) o di dare un assegno di 15 mila euro a tutti i 18enni ma il tema della trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza dovrebbe rappresentare un tarlo per dei veri progressisti. Che sembrano invece avere a cuore più i temi della diversità di quelli della mobilità sociale. Da qui alla sensazione che le Ztl siano un club a trasmissione ereditaria, e non un esempio di società aperta, il passo è breve. La possibilità di entrare a far parte delle classi dirigenti deve trovar posto nel bagaglio di speranze di ciascun ragazzo/ragazza, è una condizione minima che sta alla base di un patto sociale post-novecentesco. Prendendo a prestito la celebre frase di Napoleone è quasi doveroso incoraggiare ogni fante a portare nel proprio zaino il bastone da maresciallo.
Il secondo capo d’accusa riguarda gli ambiti di impegno del circolo Ztl. Per molti dei suoi adepti, innovazione è una parola sacra ma nella vita di tutti i giorni la maneggiano come un coltello non come un cucchiaio. La utilizzano per infilzare i retrogradi e i dubbiosi più che per includere e raccogliere adesioni. Così facendo finiscono per contrapporre il futuro al presente e non tengono conto che la maggioranza più o meno silente pensa e ragiona avendo come punto di riferimento altre priorità — non necessariamente confliggenti — quali sono il consumo, la produzione oppure il risparmio. Se l’innovazione non è capace di parlare con questi mondi finisce per generare un effetto bolla con la triste conseguenza di non far nascere mai in Italia una vera constituency della modernizzazione. Lunga vita dunque alle Ztl ma dobbiamo chieder ai loro abitanti non tanto un’abiura di tic e linguaggi quanto di mettersi a disposizione per ricreare una connessione con il Paese reale. Lasciare da parte l’arroganza basata su un’indimostrabile superiorità antropologica e sporcarsi le mani con la difficile costruzione di una società dei tanti.