19 Settembre 2024

Per superare davvero le difficoltà occorre tornare allo spirito delle origini attraverso scelte politiche

Stati senza moneta, moneta senza Stati. Da tre decenni questa rivoluzionaria asimmetria fa dell’euro un unicum, nel mondo contemporaneo. L’euro, una moneta originata da un incidente della storia, calcolata in un laboratorio, affidata alla magiadel mercato globale.
Prima l’incidente della storia: la improvvisa, imprevista e drammatica caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989. «A volte le grandi idee possono essere servite dalle circostanze», così Jacques Delors, uno dei padri, ebbe a dire a proposito dello scambio allora operato tra unificazione tedesca e fine del marco.
Poi calcoli di laboratorio: nei laboratori della finanza, se pure in vitro, l’euro già c’era, e qui in specie, per stabilizzare la nuova moneta, si calcolavano parametri tali da ridurre per via di predefinite percentuali la residua sovranità di bilancio dei singoli Stati.
Infine la magia. Non nel Trattato di Maastricht, ma poi neppure negli atti successivi, da nessuna parte si trova la parola crisi, crisi per indicare una possibile drammatica rottura di sistema. La parola crisi era ammessa solo in alcuni periferici paragrafi. E tutto questo non era per caso, ma pour cause, perché tutto allora era visto e scritto in termini positivi e progressivi: la fine della storia, la pace perpetua per l’uomo nuovo in un mondo nuovo. Il mercato globale avrebbe dominato gli Stati e pareva dunque ragionevole che questi via via perdessero le forme storiche della loro sovranità.
Nell’insieme 500 giorni, quanti sono stati i giorni tra il Muro e Maastricht, tra novembre 1989 e febbraio 1992, giorni in cui la storia è stata prima compressa e poi esplosa verso il futuro.
Evitato al principio l’avverarsi delle più cupe profezie («Emu and International Conflict», Martin Feldstein, 1997), tutto ha funzionato più o meno bene per due decenni. Un esempio di buon funzionamento? Il debito pubblico italiano sceso nel 2003 fino al 103%del prodotto interno lordo! E con pochi e marginali incidenti, come quello delle sanzioni alla Germania, inutilmente chieste nel 2003 da Bruxelles e Francoforte, sanzioni richieste in base a un patto che loro stesse definirono stupido.
Ma poi è venuta la crisi, e la crisi è venuta proprio dalla globalizzazione. Quella del 2008 non è stata infatti solo una crisi «finanziaria», è stata la crisi della globalizzazione. I «subprime» che la innestarono erano infatti solo l’effimero tentativo di superare, con mezzi finanziari, i problemi sociali e reali generati dalla scelta istantanea di spostare la fabbrica in Asia, ignorandone l’impatto sempre più vasto e negativo sulle società e sulle economie occidentali («Il fantasma della povertà», Tremonti 1995).
Il Governo Berlusconi fece per primo notare, ma inutilmente, l’assenza nel Trattato della parola crisi e fece proposte per una nuova procedura politica fatta insieme da serietà sopra (i bilanci dovevano prima passare dall’Europa, per essere qui monitorati prima del voto nazionale),ma anche da solidarietà sotto (gli eurobond).
Da allora in Europa la crisi non è stata superata, piuttosto è stata prima aggravata dichiarando che gli Stati potevano fallire (così Sarkozy-Merkel, 2010, Deauville) e poi solo rinviata dai Picasso dell’economia, con la loro svolta cubista, prima stampando moneta dal nulla, poi portando i tassi a zero o sottozero, infine finanziando via Bce i deficit dei governi, nell’insieme così passando dall’iniziale «whatever it takes» ad un successivo e progressivo «whatever mistakes». E poi Covid, clima (con milioni di container in continuo inquinante transito per gli oceani), infine la guerra. Sono state e sono tutte queste solo alcune tra le emergenti piaghe della globalizzazione.
Oggi si vedono troppa confusione ed errori, in specie errori fatti da un lato sulle vecchie e rigide regole europee, dall’altro lato ignorando gli effetti dei vari Pnrr che, forse non si è notato, di fatto se non di diritto già contengono la novità di una «golden rule» sugli investimenti così ammessi e finanziati.
Il Trattato di Roma, la base del Mec e il principio dell’Europa che abbiamo vissuto nei tanti felici decenni passati fu chiuso con un’invocazione solenne: «veni creator spiritus».
È ancora il tempo per tornare a quell’Europa. Un tempo che può essere solo politico e non tecnico. E perciò un tempo che non può essere occupato e ipotecato da organi politici che sono ormai prossimi alla scadenza, come oggi sono quelli europei, tanto il Parlamento, quanto la Commissione, quanto e soprattutto i Consigli. Un tempo che può venire solo dopo le nuove elezioni europee, e nella speranza che queste uniscano e non dividano l’Europa, tra passato e futuro e tra ovest ed est.

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