Fonte: Corriere della Sera
di Venanzio Postiglione
Il voto in Molise dice qualcosa più del previsto: i vincitori di ieri non sono quelli di oggi
Sembrava solo un passaggio. Ma è successo qualcosa. Le elezioni in Molise dicono più del previsto e sono forse un altro ostacolo sulla strada del governo nazionale. Proprio adesso, mentre Roberto Fico riprende il filo dei colloqui. I vincitori dell’altro ieri, Di Maio e Salvini, non sono i trionfatori di oggi. Il centrodestra prevale perché unito: un candidato, un programma. Così come in Lombardia, in Veneto. Una rottura della coalizione avrebbe ricadute in tutta Italia.
Forza Italia va ancora giù, ma resta più su della Lega: non era scontato. I 5 Stelle non conquistano la loro prima Regione e fanno un passo indietro rispetto alle Politiche. Il centrosinistra precipita: il 4 marzo non era una parentesi, si poteva indovinare però colpisce lo stesso.
Ma la sorpresa (vera) arriva dal centrodestra. La boccata d’ossigeno è allo stesso tempo un rompicapo. Come se ci fosse una unità a prescindere. Più i leader si allontanano, con Berlusconi e Salvini che insistono ogni giorno sulle differenze, e più gli elettori li richiamano all’ordine. Forse alla necessità. Forza Italia cala ma la Lega resta al suo posto e non la supera né la straccia: il destino «ineluttabile» magari è solo rinviato, però non si è ancora compiuto. Anche perché sono andate bene le liste civiche: area moderata, consensi alti. Nei giorni più difficili, Matteo Salvini ha anche la pressione delle giunte locali, dalla Liguria alla Sicilia, passando per centinaia di Comuni. Un tormento politico e anche personale. Strappare, non strappare, a che prezzo. Il richiamo del comando subito, come l’anello di Tolkien, o la pazienza di una leadership da cucire e costruire. Senza fretta. Il capo leghista percepisce che non può stare né con Berlusconi né senza Berlusconi: un sentiero stretto. Da oggi ancora più stretto. Il segnale è arrivato ma non era quello che aveva in mente Salvini: la rottura con Forza Italia può diventare un azzardo.
I 5 Stelle si sentivano la vittoria in tasca. Un po’ per l’onda lunga delle elezioni politiche, un po’ per il dato specifico in Molise (dove avevano superato il 44 per cento). Ma l’intreccio tra voto di protesta, soprattutto al Centro e al Sud, e proposte choc, a partire dal reddito di cittadinanza, quasi svanisce nelle città e nelle Regioni. Dove c’è un problema di programmi, di candidati, di presenza reale e non solo virtuale. Difficile dire se ha pesato anche il tira e molla di un mese e mezzo di trattative a Roma. Possibile. Anche perché il Movimento vive di sogni, di tappe bruciate, di fughe in avanti: fermarsi è come retrocedere. Il potere va preso senza dirlo troppo in giro: altrimenti diventa torbido.
E poi c’è il centrosinistra. Nel senso che non c’è. Il 18 per cento delle Politiche diventa in Molise il 16. Con il Pd addirittura sotto il 9. In una Regione che governavano. Chi ha parlato di traversata del deserto è un ottimista: si tratterà di scalare montagne, sfidare cascate, navigare per gli oceani. La storica forza della sinistra, cioè il buon governo locale che si trasforma in una grande spinta nazionale, si è perduta nella nebbia. Il Partito democratico avrà bisogno di «un nuovo inizio», per dirla in politichese. Non si tratta soltanto di progetti e di programmi: ma anche di leader da cercare e da immaginare. Tempi lunghi. La mappa delle Regioni «rosse» sembra lo specchio di un’altra epoca: una stella che vediamo ancora brillare, ma non esiste più nella realtà.
Il Molise all’improvviso al centro del Paese ha votato e lanciato il suo governatore. Subito, all’alba. Si può parlare ancora per mesi del pantano italiano, si deve trovare il governo possibile perché è passato già un periodo lungo e le nostre emergenze premono, ma diventa inutile girarci attorno: senza una legge elettorale maggioritaria, la paralisi è scritta. Il turno unico nelle Regioni, chi arriva primo vince, e soprattutto il ballottaggio nelle città, i due più forti che si sfidano, hanno un pregio chiaro e convincente. Che si chiama governabilità. Come dimostra Macron in Francia. Forse il nuovo Parlamento, il giorno in cui avremo un esecutivo o magari senza aspettarlo, dovrà occuparsene. Meglio prima che poi. Gli elettori, in questi tempi, hanno fretta e perdonano poco.