È arrivato il momento di occuparsi seriamente di tutte le vittime della violenza (e dei loro figli), non solo di quelle che perdono la vita
Piccoli riassunti di grandi drammi. «Tenta di ammazzare la moglie, la salvano i figli». «Aggredisce la compagna, arrestato». «Ginocchiate e calci alla testa dell’ex che l’ha lasciato». «Perseguita la ex che è tornata a vivere con la madre». «Prende a calci la ex, denunciato dalle coinquiline di lei». «Lei chiama la polizia per le violenze, lui aggredisce gli agenti». «Pretende un rapporto sessuale sui binari dalla compagna, lei rifiuta e lui la prende a pugni». «Aggredisce la compagna incinta e la minaccia con un bastone». «Lui la picchia davanti al figlio, lei scappa dal vicino». «Agguato contro la compagna con lo spray urticante». «Minaccia moglie con un coltello e aggredisce i figli». È così ogni giorno. Nelle redazioni dei giornali basta consultare le agenzie di stampa con le solite parole-chiave: violenza, gelosia, aggredisce, picchia, minaccia, ex… Cosucce del genere. Digiti la parola e magicamente sullo schermo compaiono i casi del giorno.
Quelle appena elencate sono alcune storie di questo scampolo di 2023. Non tutte perché è facile ipotizzare che alcune delle donne vittime di aggressioni decidano di non denunciare o che magari non l’abbiano ancora fatto. Ci concentriamo quasi sempre sul femminicidio. Siamo attente/i, com’è giusto che sia, ai fattacci offerti dalla cronaca nerissima di donne perdute per sempre. Ma ci sono anche loro, le ferite. A Bologna come a Napoli, a Trento come a Cagliari. Sono un esercito e non tutte trovano o cercano salvezza, assistenza, rifugio immediati e duraturi. Ci sono i bambini che spesso assistono alla violenza. E ci sono le ragioni (economiche, psicologiche, legate alla paura o a qualche altra cosa) che hanno fatto di una relazione una specie di prigione. La sola cosa che non c’è è l’amore. Loro — le ferite — sono fuori statistica; non sono mai state priorità dell’immaginario collettivo, che davanti all’espressione «violenza sulle donne» pensa più che altro al femminicidio. E però, come sa bene chi si occupa di centri antiviolenza e case rifugio, le ferite sono tante. Tantissime. Nel fisico e nell’anima. Ed è arrivato il momento di occuparsi seriamente di tutte loro e dei loro figli, se ce ne sono. Così com’è arrivato il momento di occuparsi di più e meglio degli orfani dei femminicidi. Finanziamenti, progetti di occupazione, di assistenza, di studio. Percorsi di vita, finalmente.