Pochi ricordano il legame stretto che questa nostra storia ha fondato tra la guerra e la nascita stessa dei regimi democratici nel nostro continente
Poche volte come in questi tempi è capitato che si sia tanto evocato e invocato «il dovere della memoria» e però mai come oggi della memoria, e dunque del passato, sembra essersi persa ogni nozione viva e vera. E così oggi ben pochi si ricordano della nostra storia, tanto meno di un punto cruciale di essa: cioè del rapporto stretto che questa storia ha fondato tra le armi e la democrazia, tra la guerra e la nascita stessa dei regimi democratici nel nostro continente.
La prima Guerra mondiale, ad esempio, fu senz’altro un’«inutile strage» nonché l’origine di molti degli sconvolgimenti che portarono vent’anni dopo alla seconda: tuttavia essa fu pure all’origine in Europa del crollo di tre imperi reazionari e della nascita di un buon numero di nuovi stati, dall’ Estonia alla Cecoslovacchia, dalla Polonia all’Ungheria. Stati nazionali e indipendenti: due caratteristiche decisive perché vi potesse poi stabilirsi un regime democratico.
Ma se nell’Europa attuale un regime del genere è la regola, se nel nostro continente le culture politiche della destra e della sinistra antidemocratiche sono state di fatto spazzate via, il merito (possiamo usare questa parola?) è difficile non riconoscerlo all’esito sia del terribile conflitto che imperversò dal 1939 al 1945 e sia di quella sorta di sua lunga prosecuzione non combattuta che fu la «guerra fredda»: due fatti che insieme sancirono la definitiva vittoria ( nel secondo caso sull’Unione Sovietica) degli Stati Uniti. Fino a prova contraria è solo da un tale nodo di eventi dominato per intero dalla dimensione bellico-militare che è nata la democrazia europea che conosciamo da decenni. Ancora una volta, come voleva la saggezza greca, «polemos» la guerra, si è dimostrata «l’origine di tutte le cose».
Già questo solo fatto dovrebbe forse indurre a qualche riflessione (malinconica quanto si vuole ma realistica) tutti coloro i quali pensano che la guerra costituisca intrinsecamente un male. Certo che lo è. Ma a volte non c’è che la guerra capace di evitare un male ancora maggiore. A volte evitare la perdita della libertà, sottrarsi a una vita in schiavitù, alla prospettiva di veder sterminati il proprio popolo e la propria cultura, è possibile solo affrontando il pericolo di morire e il rischio di uccidere.
Di uccidere anche civili innocenti, anche donne, vecchi e bambini, di uccidere per uccidere. Cioè di commettere quelli che attualmente almeno tre o quattro trattati e convenzioni internazionali definiscono crimini di guerra. Come quelli che stando ai criteri odierni indubbiamente commisero i vincitori della seconda guerra mondiale, gli Alleati, senza la cui vittoria, non ci sarebbe oggi la democrazia in Europa.
Alla guida di una Gran Bretagna rimasta sola contro il Terzo Reich padrone dell’Europa, Churchill all’inizio del 1941 si convinse che la sola risposta possibile fosse «an absolutely devastating exterminating attack» sulla Germania da parte dei bombardieri pesanti inglesi. Il programma fu portato a termine. In 400mila incursioni la Royal Air Force sganciò sul territorio nemico un milione di tonnellate di bombe. Molte città tedesche vennero interamente rase al suolo vedendo morire in una sola notte un terzo dei propri abitanti. In totale persero la vita 600 mila civili tedeschi e alla fine della guerra si contavano qualcosa come 7 milioni e mezzi di senzatetto. In pratica – come si legge in un libro da cui sono tratti tutti questi dati, Storia naturale della distruzione di W. G. Sebald, Adelphi edizioni – in Germania «l’esistenza urbana venne pressoché cancellata».
In uno scenario raccapricciante che questa pagine ci restituiscono nei particolari di tecniche di bombardamento, ad esempio con ordigni al fosforo, appositamente mirate a uccidere quante più persone possibile. Nell’«operazione Gomorra» su Amburgo, una sorta di vento di fuoco si riversò per le strade ad oltre centocinquanta chilometri all’ora, l’asfalto delle strade si liquefece, corpi orrendamente dilaniati si ridussero a un terzo della loro grandezza naturale. Non pochi dei sopravvissuti caddero in uno stato di demenza.
Fu un tipo di guerra inumana. Il cui carattere suscitò dubbi e opposizioni morali che echeggiarono perfino nella Camera dei Lord e negli stessi ranghi delle forze armate. Non è un caso se neppure uno dei membri degli equipaggi dei bombardieri inglesi – le cui perdite in azione raggiunsero la percentuale spaventosa del 60 per cento – neppure uno, dicevo, ricevette una qualunque ricompensa al valore. Segno della consapevolezza che quanto era accaduto meritava solo l’oblio.
Una guerra inumana, certo. Ma è questa guerra, anche questo tipo di guerra che è all’origine della democrazia in Europa: bisogna saperlo e non dimenticarlo. Per assolvere allora tutti e tutto? Certamente no. Piuttosto per convincerci che la vita dei popoli e delle nazioni, la politica, la storia, sono cose maledettamente serie e molto spesso tragiche: dove quasi mai il male può essere sconfitto dal bene, dove per affermare le proprie ragioni anche il bene è costretto a servirsi dei mezzi più discutibili. Cose maledettamente serie e tragiche che non sopportano né i facili moralismi declamati seduti alla scrivania del proprio studio, né gli slogan gratificanti gridati nei cortei. E forse, talvolta, neppure le pandette dei tribunali.