3 Dicembre 2024

La rabbia degli abitanti del campo profughi colpito dal raid israeliano: «Chi non ferma queste atrocità è complice di chi le compie» scrive Reham Moeen

Chiedono se abbiamo visto l’immagine del bambino senza testa: «L’avete vista?». Al di là del muro che divide Rafah dall’Egitto, questa è una domanda raccapricciante, macabra, irripetibile. Ma dall’ultima città del Sud della Striscia di Gaza, quel piccolo corpo carbonizzato, senza gamba, senza cranio, con ancora addosso il pigiama della notte e mostrato al cielo dalle mani di un padre disperato, è il simbolo di un nuovo massacro già ribattezzato del 27 maggio
E ci fanno questa domanda – «L’avete visto?» – per essere sicuri che l’orrore che sta avvenendo sulla loro terra, sulla loro pelle, sia chiaro a tutti: «Perché chi non ferma queste atrocità è complice di chi le compie», scrive Reham Moeen, 27 anni, in un raro momento in cui riesce a connettersi a internet.
La conta dei morti dell’attacco dell’esercito d’Israele sul campo di sfollati Tal as-Sultan, a nord-ovest di Rafah, è arrivata a 45 persone uccise oltre ai 200 e più feriti . «Delle scuse di Netanyahu, delle indagini degli Stati Uniti, delle condanne dell’Europa ce ne facciamo ben poco. Forse non siamo considerati esseri umani. Per stanare due miliziani hanno ucciso decine di civili», continua Moeen.
Mohammed Rajab, nato e cresciuto a Gaza, padre di quattro figli, ci tiene a spiegare come il nylon incandescente delle tende bombardate si è fuso sul corpo di chi pensava che quei teli di plastica fossero l’ultimo riparo. «La pelle inizia a bruciare e se non si muore, le ustioni sono così gravi da rendere invalidi». Non è pornografia del dolore la sua. È più necessità di spiegare la realtà dell’inferno-Gaza a chi non può immaginare.
«Gli oltre duecento feriti dell’attacco di ieri sono arrivati al Trauma center di Rafah dove lavoriamo con lo staff del posto. La struttura dista poco più di un chilometro dalla zona bombardata. Molti degli ustionati hanno bisogno di cure avanzate, difficili da trovare qui», spiega Martina Marchiò coordinatrice di Medici Senza Frontiere. «Non sappiamo più cosa dire. È stato un attacco aggressivo in un’area che sarebbe dovuta essere sicura», continua.
«Bullshit» dice Rajab, che tradotto con parole cortesi vuol dire «fesserie». Non crede a nessuna delle affermazioni del governo israeliano che, tre giorni dopo l’ordine della Corte di Giustizia di fermare l’offensiva su Rafah, uccide 45 civili.
Rajab domanda se riusciamo a immedesimarci con le loro vite. Chiede se riusciamo a immaginare l’odore acre dei campi profughi senza servizi igienici. Il caldo intollerabile che diventa mortale nell’abitacolo della tenda. Le zanzare. Il pianto dei bambini che hanno fame, sete e paura. Il rumore continuo dei droni israeliani che volano sopra le teste. «Tutto questo per 24 ore moltiplicato per otto mesi di guerra. La gente sta impazzendo, la tensione è altissima. Si litiga per ogni cosa, anche per una cipolla. Siamo depressi, arrabbiati, senza speranza. Non abbiamo cibo, costa tutto troppo. Nemmeno le sigarette ci sono rimaste: oggi una sigaretta costa 30 euro. Non ci sono contanti per comprare i beni di prima necessità, tutti i bancomat sono esplosi». E soprattutto gli ospedali funzionanti sono troppo pochi e un raffreddore diventa polmonite, un mal di pancia un’infezione incurabile. «Non crediamo più che la pace sia possibile. Nessuno controlla il governo d’Israele, non rispettano gli accordi. È assurdo quello che succede qui. Forse siamo invisibili».
A proposito di invisibilità, ieri, il poeta palestinese Mosab Abu Toha ha postato suoi social una poesia, che fa così: «Meritiamo una morte migliore/ I nostri corpi sono sfigurati e attorcigliati/Ricamati di pallottole e schegge/I nostri nomi sono pronunciati sbagliati alla radio e alla tv/Le nostre foto che tappezzano i muri degli edifici svaniscono e impallidiscono/Il sole cocente ha sopraffatto i nostri corpi putrefatti».

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