Fonte: La Stampa
di Alberto Simoni
Vuole un iter condiviso prima di attivare la procedura d’uscita
Fra le stanze di Westminster i deputati si guardano ancora smarriti, lo choc del referendum del 23 giugno ha lasciato segni evidenti. La faida interna al Partito laburista è agli inizi, quella in casa Tory è all’epilogo. Qui la vincitrice, Theresa May, ha le idee chiare ed è ben determinata a condurre in porto la Brexit. Anzi, a chi la acclama fuori da Westminster, dice che «faremo della Brexit un successo». Ma ci vuole calma, pazienza e soprattutto nervi saldi e competenza per trasformare il voto del 23 giugno in un trionfo e non in un incubo di cui il Regno Unito dovrà pentirsi.
Qualche deputato conservatore come John Redwood, falco della Brexit, dice che la prima cosa che dovrà fare May «è dichiarare la fine dell’appartenenza alla Ue». La premier in pectore però non ha questo come priorità proprio perché sa che per uscire dall’Unione non basta invocare l’Articolo 50 del Trattato di Lisbona. Bisogna anzitutto prepararsi a innescarlo. E serve un piano. Fonti diplomatiche ricordano che Londra non ha mai avuto una strategia che guidasse l’eventuale uscita. «Theresa May è saggia, ha molta esperienza, è competente, conosce le pieghe delle norme e non farà nulla fino a quando non avrà in mano un piano serio con cui negoziare con la Ue la via d’uscita per Londra», spiega un diplomatico britannico.
L’exit strategy ha infatti due corni: il primo è il negoziato con Bruxelles dove la stessa Merkel, la più morbida e prudente fra i big verso le scelte britanniche, ha ricordato che il «cherry picking», ovvero scegliere ciò che conviene e scartare quello che non serve nel rapporto con la Ue, non sarà permesso.
C’è poi la partita che si gioca a Westminster. E qui Theresa May deve muoversi con cautela perché il terreno è ignoto e quindi scivoloso. Ci sono norme e regole che devono essere letteralmente riscritte e rivedute alla luce del referendum (basti pensare l’impatto del Leave sui rapporti con la Scozia dove c’è una forma di devolution di competenze). Serve un Parlamento compatto e unito e oggi la maggioranza per varare la Brexit, esiste nel Paese pur se risicata, non c’è a Westminster. May avrà i numeri e avrà bisogno però di laburisti e liberaldemocratici. La premier in pectore vuole portare Londra fuori dalla Ue in modo compatto, senza strappi, con il più alto consenso possibile. Consenso politico e sociale. Concetto chiave per la neo leader dei Tory che ieri ha tratteggiato la sua visione economica in quello che è stato il primo discorso sul tema. May è consapevole, spiega un autorevole deputato conservatore, che il Paese è diviso soprattutto sotto il profilo economico. Ci sono interi collegi elettorali, nel Nord e nel Sud dell’Inghilterra, scossi dalla perdita di posti di lavoro e da una riduzione del Pil pro capite. Lì gli elettori hanno cercato risposte nel messaggio estremista e xenofobo dello Ukip. Sono consensi non solo persi dai laburisti ma anche – è il ragionamento che fanno negli ambienti vicini alla May – dai conservatori.
Spiega Vincenzo Scarpetta di Open Europe: «La sua visione è un ritorno a un conservatorismo compassionevole meno glamour e liberista di quello di Cameron». «Siamo il partito della libera impresa – ha detto May -, ma dobbiamo tutelare i lavoratori». Concretamente – almeno nel piano che ha delineato – significa portare rappresentanti dei lavoratori nei board delle grandi aziende e provare a ridurre le disparità economiche fra dirigenti e lavoratori.
L’economia britannica va bene, ha prodotto guadagni per molti, ma non per tutti, è la linea della May. Per uscire «uniti» dalla Ue, serve prima di tutto guarire le ferite interne del Paese. Poi May penserà a traghettare Londra fuori dall’Unione. «Non prima di gennaio comincerà il cammino», lasciano capire le fonti diplomatiche. Con calma. Un passo dopo l’altro per non fare errori. Pieno stile May.