16 Settembre 2024

Oltre all’aspetto militare, c’è da affrontare una «questione psicologica»: il mondo è cambiato e bisogna adattarsi alle nuove condizioni

Probabilmente chi conosce il mondo delle scommesse è in grado di rispondere: a quanto è data la probabilità che l’Europa riesca, in tempi ragionevoli, a provvedere alla propria sicurezza? È verosimile che la quotazione equivalga, più o meno, a quella assegnata a un brocco che partecipi a una corsa di cavalli: poche chances. La possibilità di dare vita a una difesa europea dipende, si dice, dalle risorse disponibili e dalla volontà politica dei governi. È vero ma solo in subordine. Prima di tutto, è una questione di psicologia, ha a che fare con processi mentali. Nel rapporto sullo stato del mercato unico Enrico Letta ha ricordato che quasi l’80% delle armi inviate dall’Europa all’Ucraina dall’inizio del conflitto è stato acquistato da produttori non europei. Mario Draghi, anticipando i temi del rapporto che presenterà alla Commissione sulla competitività in Europa, ricorda che la frammentazione nel settore della difesa impedisce economie di scala e blocca lo sviluppo delle capacità industriali. Nel frattempo, nei palazzi dell’Unione europea c’è chi spinge per dotare i Paesi Ue di una efficiente difesa antimissilistica da affiancare ai dispositivi dell’Alleanza atlantica. Non si sa se e quando ciò potrà avvenire. C’è la Nato, naturalmente. Ma il suo destino è nelle mani degli americani. Gli elettori americani (e tanti di loro la pensano proprio così) potrebbero decidere che tocchi agli europei, in un prossimo futuro, provvedere alla propria sicurezza.
In quel caso l’Europa potrebbe ritrovarsi improvvisamente nelle condizioni di un agnello circondato da lupi feroci e famelici. Perché tirare in ballo la psicologia? Perché nella mente di tanti europei sembra esserci un grumo che blocca la possibilità di comprendere che il passato è passato, che il mondo di ieri non esiste più, che occorre adattarsi alle nuove condizioni, che, per sopravvivere, occorre cambiare. Tanti europei sembrano incapaci di accettare il fatto che la sicurezza non è una condizione naturale né un regalo elargito loro da qualche misteriosa divinità e di cui potranno beneficiare indefinitivamente. L’inerzia mentale è comprensibile.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale gli europei sono stati consumatori di sicurezza anziché produttori. È grazie alla protezione militare americana che li liberava dall’onere di investire massicciamente nella propria difesa che gli europei hanno potuto sviluppare i loro costosissimi sistemi di welfare. Si sono abituati a credere che la sicurezza sia un pasto gratis. È bello — in genere ci si sente molto buoni — essere pacifisti. Ma la pace, quando c’è, non è il frutto della mansuetudine. Se c’è la pace vuol dire che qualcuno dispone delle armi per difenderla e per imporla. In altri termini: la pace c’è se e finché prevalgono certe condizioni politiche e certi equilibri militari, non c’è più se le condizioni cambiano e all’equilibrio subentra lo squilibrio.
C’è sempre stato qualcosa di ridicolo in quegli intellettuali europei che sbeffeggiavano Francis Fukuyama, il celebre teorizzatore della «fine della storia» dopo la conclusione della Guerra fredda. Facevano finta di non sapere che i primi a credere nella fine della storia, quanto meno per l’Europa, sono stati gli europei, intellettuali compresi.
Quando si parla delle difficoltà dell’Ue ci si riferisce ai veti e contro-veti reciproci dei governi europei. Ma non conta solo il rapporto «orizzontale» fra i governi. Conta anche quello «verticale» fra i governi e le opinioni pubbliche. Si tende spesso a considerare tale rapporto nell’uno o nell’altro di due modi ugualmente errati: si pensa che le opinioni pubbliche siano totalmente plasmate/dominate dai governi oppure che i governi siano sempre prigionieri degli orientamenti delle opinioni pubbliche. Invece, si tratta di un legame complesso in cui l’influenza corre nei due sensi: i governi possono fare molto per orientare le opinioni pubbliche ma queste, a loro volta, circoscrivono i margini di manovra dei governi.
È necessario che i governi si impegnino nella sicurezza dell’Europa. Ma l’impresa può avere successo solo se prima, o almeno contestualmente, verrà eliminato quel grumo psicologico che impedisce a tanti (la maggioranza?) degli europei di comprendere che d’ora in poi, per la propria difesa, bisognerà pagare. Le ricette per mettere l’Europa in sicurezza in tempi ragionevoli esistono. Ma se non cambia la testa degli europei non si va da nessuna parte.
Forse, chissà?, i governi dovrebbero, come prima mossa, reclutare squadre di psicologi, psicologi sociali, neuro scienziati. E adottare strategie comunicative appropriate seguendo le loro indicazioni. È curioso che le élite europee (quelle politiche come quelle intellettuali) dichiarino ad ogni piè sospinto la propria fedeltà ai valori democratici e poi dimentichino che senza il consenso del «popolo» non si può fare niente.
L’integrazione europea , per tanto tempo, ha riguardato solo le élite, è andata avanti senza bisogno di chiedere il permesso al suddetto «popolo», il quale (tempi felici) era ben contento di usare l’Europa come un bancomat, di ricavarne benefici. Ma adesso le condizioni sono diverse. Non ci sono più pasti gratis, c’è un ticket da pagare. E quando il consumatore deve pagare lo fa solo se è convinto dell’utilità del servizio di cui intende usufruire. L’invasione dell’Ucraina sembrava avere dato la sveglia agli europei . Ma, poi, in molti è subentrata l’assuefazione e la voglia di tornare a dormire. Nel mondo nuovo non ce lo possiamo più permettere.

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