16 Settembre 2024

Sembra che un brivido futurista abbia attratto i giornalisti della tv russa entusiasti dei missili in grado di «incenerire» Berlino. Parigi, Londra in una manciata di secondi

«Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità». Così scriveva, nei primi del ’900, Filippo Tommaso Marinetti che qualche anno più tardi ribadiva: «Insistiamo: la velocità è la nostra nuova Musa».
È forse il brivido futurista quello da cui sono stati attratti i giornalisti della tv russa quando qualche giorno fa, nel clima leggero di una trasmissione televisiva, hanno deciso di dare in pasto a milioni di telespettatori una terribile fantasia: in un attimo — 106 secondi per colpire Berlino, 200 secondi per Parigi, 202 per Londra — con il nuovo missile balistico intercontinentale Sarmat siamo in grado di «incenerire» le capitali di mezza Europa.
Affermazioni che si basano sul presunto successo del recente test effettuato con un nuovo razzo ipersonico, capace di una gittata di 18.000 chilometri (cioè potenzialmente in grado di colpire anche il territorio americano) e armato con diverse testate nucleari.
Lo stesso regime ammette che la nuova tecnologia non è ancora pronta e che ci vorrà del tempo per arrivarci. Ma è chiaro che Putin confida in questa nuova arma per rendere concrete le sue quotidiane minacce nei confronti dei Paesi Nato. E per cambiare a proprio favore i rapporti di forza.
Diversi analisti ritengono che si tratti di propaganda: in tutte le guerre, l’annuncio di una nuova superarma in grado di distruggere il nemico torna puntualmente, per risollevare il morale e rinfocolare gli entusiasmi. Soprattutto quando c’è bisogno di nascondere gli insuccessi. E, nel caso specifico, le difficoltà che l’esercito russo sta incontrando sul terreno. Doveva essere una guerra lampo e invece…
Ma anche con questa fondamentale precisazione, quanto trasmesso dalla tv russa va preso sul serio: eccitare gli animi dei telespettatori russi con un tale immaginario di potenza distruttiva non promette niente di buono.
È dunque la velocità magnificata da Marinetti — in questo secolo diventata un ingrediente sempre più pervasivo e penetrante delle nostre vite — che sta al cuore della strategia del Cremlino. Lo aveva previsto Paul Virilio: nella guerra contemporanea, più che lo spazio, è il tempo a diventare risolutivo, togliendo la possibilità di reazione e dunque di difesa. Il razzo ipersonico mira così a sovvertire la dimensione costitutiva della guerra, che, come insegnava Carl Schmitt, è terrestre, legata cioè alla ridefinizione del confine.
In realtà, ci troviamo in una situazione intermedia e perciò molto rischiosa: da un lato, la guerra continua a essere pensata nei termini tradizionali come conquista del territorio, spostamento delle frontiere, annessione di intere regioni. Dunque in una logica spaziale, con tutte le difficoltà, gli imprevisti, le lentezze che ciò comporta. Nella sua cruda concretezza, l’avanzata delle truppe russe si scontra con la resistenza Ucraina. Dall’altro, è nell’immediatezza della soluzione che pretende di offrire che il nuovo razzo esercita tutto il suo fascino.
È proprio l’incongruenza tra la lentezza della guerra di terra e la velocità della guerra di cielo che occorre tenere presente per valutare gli sviluppi bellici dei prossimi mesi.
L’esperienza degli ultimi anni ci dice infatti che, sul terreno, le guerre si trascinano all’infinito. L’illusione della vittoria è un miraggio inconsistente perché la resistenza — che in un mondo interdipendente si rafforza grazie alle armi che in un modo o nell’altro filtrano dall’esterno — mette regolarmente in discussione i piani militari costruiti a tavolino. I tetri spettacoli delle città distrutte in Ucraina — come in tante altre parti del mondo — documentano tale incongruenza.
Ciò aumenta il rischio che gli strateghi della guerra possano davvero convincersi che non sia più lo spazio ma il tempo l’arma davvero vincente. L’accelerazione ci dà sempre l’illusione di arrivare all’obiettivo finale, tagliando via intere parti della realtà. Che, alla fine, non può che ribellarsi.
Al di là del realismo della minaccia del missile Sarmat (a cui si è ora aggiunto anche Poseidon, il siluro che le fonti russe affermano in grado di «determinare uno tsunami devastante»), ciò che traspare dalla delirante esibizione della tv russa è il salto di livello verso cui il regime rischia di precipitare.
Putin non può vincere sul campo. Ma, contrariamente a quanto tanti sembrano pensare, è difficile credere che questa guerra si possa concludere con l’umiliazione di Putin e del suo establishment. Prima di scomparire, il regime sarebbe inevitabilmente tentato di schiacciare il bottone. Tanto più che una tale decisione avverrebbe lontanissimo dal terreno di battaglia. Nella pura astrazione di una strategia dove non si vede la tragedia che si è in grado di provocare. Una condizione che, come insegna la psicologia sperimentale, abbassa drasticamente la consapevolezza morale dell’atto compiuto.
Proprio perché viviamo nell’era della ipervelocità, ci vuole un attimo per innescare la miccia che porta alla distruzione. E tenuto conto che le parti si confrontano e si parlano direttamente ai massimi vertici, spesso provocandosi in presa diretta, la dimensione emozionale — sempre importante — oggi conta ancora di più. Anche se a migliaia di chilometri di distanza, tutti i contendenti sono nello stesso «luogo». Che è poi è l’unico pianeta che condividiamo.
Ecco perché è bene che, nel trattare con un aggressore in difficoltà, nessuno dimentichi la delicatezza della situazione: basta davvero poco per precipitare in una situazione senza ritorno.

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