22 Novembre 2024

Accordo per i colloqui oggi vicino al sarcofago della centrale con «mediatore» il dittatore bielorusso Lukashenko. Gli ucraini: «Non cederemo un millimetro di terra»

Evocano la catastrofe nucleare e poi s’incontrano vicino al reliquiario del più grande disastro atomico. Nel giorno delle peggiori minacce balistiche di Mosca — Vladimir Putin mette in stato d’allerta il sistema difensivo atomico della Russia —, Ucraina e Russia non potevano scegliere luogo più spettrale, per tentare d’uscire dal pantano della guerra: nella più estesa palude d’Europa, la Polesia; lungo il fiume dai fanghi più radioattivi, il Pripyat; a poca distanza dal più contaminato dei nomi, Chernobyl. Dopo una trattativa riservatissima iniziata sabato mattina, dopo gli abboccamenti falliti delle due Chiese ortodosse separate e nazionaliste, dopo i sondaggi per una mediazione condotti da Vaticano, Israele e Turchia, oggi si prova qui, quasi sul confine Nord. Volodymyr Zelensky non voleva saperne d’entrare in Bielorussia: ha sempre pensato che gli accordi firmati a Minsk nel 2014-2015, troppo sbilanciati a favore dei russi, fossero stati un errore proprio perché firmati in quel facsimile di Russia che è la dittatura di Aleksandr Lukashenko. Il presidente ucraino ha resistito fin oltre le 13 della domenica, sfidando l’ultimatum di Putin. Ha proposto Varsavia, Istanbul, Vienna, sedi Nato. Ha chiesto Baku, ma non c’era tempo. Alla fine, ha detto sì a Chernobyl.

Strada strettissima
Sperare per non sparare. La scelta del luogo sembra l’unica concessione ucraina, al momento. Perché nessuno vuole mollare nulla, dopo quattro giorni di guerra. E sul tavolo di questo negoziato disperato — apparecchiato da un arbitro per nulla imparziale, Lukashenko — non può che esserci una specie di cessate il fuoco. Qualcosa che aiuti l’Ucraina a evacuare gli evacuabili. Qualcosa che serva alla Russia per fingere di fermarsi, magnanima, sulle soglie delle città accerchiate. «Non rinunceremo mai a un millimetro della nostra terra», avverte il ministro degli Esteri di Kiev, Dmytro Kuleba. Putin risponde a modo suo: da una parte ordina al responsabile della Difesa e al capo delle forze armate, il ministro Sergei Shoigu e il generale Valery Gerasimov, di «trasferire le forze di deterrenza dell’esercito russo a una modalità speciale di servizio di combattimento» (dal cremlinese: portatemi qui le valigette nucleari), dall’altra si mostra «pronto a negoziare»: su che? Dice Kuleba che «da questi colloqui può arrivare la pace, non una resa». Improbabile l’una, improbabilissima l’altra. «I russi chiederanno a Kiev di deporre le armi», ipotizza un diplomatico europeo: richiesta già respinta. Questi colloqui sono inevitabili, però, come minaccia Lukashenko. Prima paventando: «Ospiteremo armi nucleari, se la Polonia e la Lituania faranno altrettanto». Poi prevedendo: «Le sanzioni Swift spingeranno la Russia alla guerra nucleare, e la guerra nucleare è la fine di tutto». Il piccolo Putin di Minsk si traveste da garantista, assicura agli ucraini che durante la trattativa — «e anche durante il viaggio della delegazione, durante il ritorno a Kiev» — non s’alzerà un aereo, un elicottero, un missile.

Le delegazioni
Le pistole sul tavolo, prima di parlare. La squadra ucraina sarà guidata dal ministro della Difesa, Oleksii Reznikov, ma per ragioni di sicurezza impiegherà «alcune ore» ad arrivare. Quella russa, già a Minsk, avrà per capo il consigliere putiniano Vladimir Medinskij, figlio d’un pompiere che s’immolò a Chernobyl, assieme a due viceministri d’Esteri e Difesa, a un capo della Duma di Mosca e all’ambasciatore in Bielorussia. È ai bielorussi, ascari del Cremlino e ora braccio della trattativa, che Zelensky si rivolge, mentre portano l’ulivo in una mano e il mitra nell’altra: «Fate la scelta giusta — dice in russo, per farsi capire meglio —. I russi lanciano razzi dal vostro territorio. Come potete farlo e guardare i vostri figli negli occhi? Noi siamo i vostri vicini, siamo gli ucraini».

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