Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Lo schema impostato dal Quirinale sta sgelando gli schieramenti. È come se di colpo certi veti, certi pregiudizi, certe contrapposizioni si rivelassero vecchie incrostazioni, neppure troppo resistenti
A piccoli passi sta prendendo corpo qualcosa che somiglia a una tregua: una sorta di guardinga sospensione delle ostilità, in nome dell’emergenza da Covid e dell’esigenza di distribuire nel modo più efficace e condiviso i fondi europei. La nuova fase che si sta delineando è questa, spinta dall’appello del capo dello Stato, Sergio Mattarella, a tutte le forze politiche senza distinzione né pregiudiziali: un nuovo «arco costituzionale» che tendenzialmente punta a non escludere nessuno.
Nelle consultazioni alla Camera il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi sta cercando di mettere in pratica il metodo Mattarella, con un dialogo che potrebbe dare presto frutti insperati. Si capirà meglio tra oggi e domani, dopo i colloqui con i maggiori partiti. C’era un’ombra da dissipare, ed era quella di una resistenza del premier uscente, Giuseppe Conte. Ma ieri è stata ridimensionata dallo stesso Conte, e gliene va dato merito. Evidentemente, le indiscrezioni che lo descrivevano irritato, o perfino pronto a mettersi di traverso, erano nate nella cerchia di alcuni consiglieri del Movimento. Sono un gruppo di potere orfano di Palazzo Chigi, e soprannominato nello stesso M5S «i giapponesi nella giungla»: come quei soldati del Sol Levante che dopo la Seconda guerra mondiale non volevano rassegnarsi alla fine del conflitto e alla sconfitta.
Ma l’impressione è che rappresentino una minoranza, seppure agguerrita. Per questo non bloccheranno il dialogo tra la maggiore forza di governo e l’ex presidente della Bce; al massimo potranno rallentarlo e forse provocare, alla fine, qualche defezione dell’ala estremista. La dichiarazione di Conte e l’invito «alla maturità» rivolto ai grillini dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sono un buon auspicio. E permettono tra l’altro al Pd di guardare alle elezioni amministrative di primavera in alcune grandi città mantenendo un asse con il M5S. Ma quella scadenza avverrà su uno sfondo in rapido mutamento.
Non significa un sì automatico dei grillini a Draghi. E tuttavia il passo avanti, a partire dalla volontà di ascoltarlo, è indubbio. D’altronde, lo schema impostato dal Quirinale sta sgelando gli schieramenti. È come se di colpo certi veti, certi pregiudizi, certe contrapposizioni si rivelassero vecchie incrostazioni, neppure troppo resistenti. Col passare delle ore e via via che procedono le consultazioni mostrano rughe e crepe. Non vengono ancora spazzate via, perché appartengono al modo di porsi e di rapportarsi agli altri di un po’ tutti i partiti.
Tuttavia, la scommessa è proprio questa: archiviarli per affrontare con un metodo e un’ottica nuovi l’emergenza del contagio e quella economica e sociale che ne sono conseguenza diretta. È una metamorfosi appena iniziata, della quale si avverte un’eco sofferta sia nella maggioranza uscente che nell’opposizione. È significativo che il centrodestra vada a parlare con Draghi in ordine sparso, dopo essere invece salito unito al Quirinale; e che al momento tenda a presentarsi con tre linee diverse. Eppure, per paradosso non è più diviso di qualche giorno fa.
Silvio Berlusconi ha già fatto capire di volere appoggiare Draghi e di entrare nel governo. Matteo Salvini si è attestato su una posizione attendista che dietro lo schermo delle solite parole d’ordine bellicose si prepara come minimo all’astensione, al massimo perfino a un «sì». L’unica a essere ferma «per coerenza» sul no sembra Giorgia Meloni. Ma la leader di FdI nei giorni scorsi aveva chiesto ai propri alleati di restare uniti sull’astensione: compromesso significativo. In realtà, Forza Italia non vuole rinunciare a partecipare a un esecutivo con una forte connotazione europeista.
Quanto a Salvini, si rende conto che sotto l’ombrello dell’ex presidente della Banca Centrale europea può ottenere la legittimazione che finora gli è mancata nelle cancellerie occidentali. L’Ue e la Commissione sono parti fondamentali della politica interna, e passaporti indispensabili per diventare forza riconosciuta per guidare un governo. Maliziosamente, c’è chi ha notato il sorriso sornione sotto la mascherina che sfoggiava il numero due Giancarlo Giorgetti mentre Salvini parlava del prossimo incontro con Draghi. Il linguaggio facciale, per quanto mascherato, trasudava, se non soddisfazione, speranza.
A fine settimana il nuovo scenario dovrebbe prendere forma in maniera più chiara. Per ora si può solo registrare il fatto che in poche ore, dal timore di un governo Draghi appeso a una maggioranza risicata, «alla Conte», si sta passando a un avvicinamento lungo l’intero orizzonte politico. Il vero problema del premier incaricato sarà quello di bilanciare le richieste di forze eterogenee fino all’inconciliabilità; e dunque di distribuire in modo il più possibile equanime gli inevitabili motivi di scontento. Si tratta di amalgamare forze alternative, e nessuno si nasconde che sarà un’impresa. Ma Draghi ha dalla sua la consapevolezza di percorrere una strada obbligata; e la volontà di renderlo chiaro, con garbo istituzionale, ai propri interlocutori.
L’asse col Quirinale è ferreo. E a renderlo, se possibile, ancora più saldo è la convinzione comune di avere dietro l’intero Paese, stanco di dilettanti, di narcisismi e di risse che hanno consumato già troppe energie.