C’è un ruolo specifico che la Ue, divisa e debole, può giocare per spegnere l’incendio di Gaza?
C’è un ruolo specifico che l’Europa può giocare per spegnere l’incendio di Gaza? E, più in generale, far ripartire il processo di pace? Le divisioni durante il Consiglio europeo del 26 ottobre e il voto discorde in merito alla mozione Onu su Gaza hanno confermato che la Ue è tuttora incapace di esprimere una strategia condivisa. Agli occhi dei Paesi arabi l’Europa è vista come un «elefante con le gambe di un pollo» (il loro modo di rendere la nostra metafora del gigante dai piedi d’argilla).
Grandi ambizioni, elevato potenziale di influenza, ma incapacità di decidere e di agire. Se le divisioni interne e gli assetti istituzionali impediscono interventi diretti sul campo, la Ue deve almeno salvaguardare la sua reputazione di elefante, agendo sul terreno che le è più congeniale: la persuasione, la costruzione di consenso, il dialogo volto a identificare un terreno comune. Priva di hard power (basato su determinazione e deterrenza, come quello americano), la Ue utilizzi al meglio il suo capitale di soft power , supportato da una attiva diplomazia politico-culturale e da una coerente strategia di aiuti economici.
Ai margini degli ultimi vertici internazionali, alcuni leader (Giorgia Meloni fra i primi) hanno detto che bisogna uscire dalla logica dello «scontro di civiltà», ossia abbandonare l’idea che Islam e Occidente siano intrinsecamente incompatibili sul piano dei valori. Un’idea che ha cominciato a circolare nel secondo Ottocento, con la formazione dei movimenti pan-islamisti, e che ha trovato la sua formulazione più sistematica nel libro di un noto scienziato politico americano, Samuel Huntington (The Clash of Civilizations, 1996). Se si resta all’interno di questa logica, è quasi impossibile avviare percorsi di pacificazione basati sugli assunti della tolleranza, condizione imprescindibile per realizzare la formula «due popoli due stati».
Islam e Occidente cristiano hanno per lunghi periodi convissuto senza guerra, con molti esempi di reciproca compenetrazione. Il pan-islamismo anti-occidentale fiorito nel secolo scorso si trasformò in un movimento radicale e fondamentalista durante la Guerra Fredda, in particolare dopo il ritorno di Khomeini a Teheran.
I dati d’opinione disponibili segnalano che molte donne e uomini dell’Islam (persino all’interno della Striscia di Gaza) disapprovano oggi il terrorismo e appoggerebbero un appeasement con Israele e più in generale con l’Occidente. Nel 2019 la Lega Araba Musulmana organizzò alla Mecca una conferenza con più di 1.200 duecento delegati provenienti da 137 Paesi. Fu firmata una Carta nella quale si condannano estremismo e violenza. In Indonesia (il più popoloso Paese musulmano) è nata una organizzazione per la promozione di un «Islam umanitario» con più di 90 milioni di associati, oggi protagonista principale del network Religion 20, il punto d’incontro per i movimenti religiosi musulmani di orientamento moderato. L’organizzazione ha condannato i massacri di Hamas. Pur con parole più tiepide, i governi che hanno firmato gli Accordi di Abramo con Israele hanno anch’essi deplorato l’uso della violenza contro i civili. E lo scorso settembre decine di intellettuali arabi hanno scritto una lettera aperta al presidente dall’Autorità Palestinese protestando contro le sue affermazioni anti-semite.
L’Islam moderato esiste. Come ha giustamente osservato lo studioso turco Mustaka Akyol durante un’intervista a Reset, i suoi esponenti sono circondati da robuste forze illiberali impregnate di settarismo religioso e nazionalismo autoritario. Ciò nonostante si stanno aprendo spazi per un possibile incontro con i valori della democrazia liberale. Sviluppi che l’Europa fa fatica a vedere, anche a causa dei propri pregiudizi. Un esempio per tutti. Dopo il 7 ottobre, sia Le Monde che Le Figaro hanno lamentato il silenzio da parte delle autorità islamiche francesi. In realtà, quasi tutte avevano rilasciato comunicati fortemente critici contro Hamas e l’uccisione di civili innocenti.
Come consolidare e soprattutto valorizzare i nuovi spazi? Non c’è una bacchetta magica: organizzare fori di dialogo (come l’Euromed, promosso dall’ Ispi), proposte di mediazione, erogazione di finanziamenti condizionali, diplomazia orientata al peace building, azioni mirate verso i giovani, ossia le future classi dirigenti delle società arabe. Il Piano Africa della Ue, a cui sta lavorando il governo italiano, potrebbe estendere i propri obiettivi dal contenimento dell’immigrazione alla promozione di reti per l’interazione politico-culturale. I rischi da evitare sono ulteriori fallimenti come quello tunisino: restare alla finestra mentre un Paese piccolo ma cruciale per il fianco Sud della Ue è progressivamente scivolato verso il nazionalismo autoritario, soffocando una delle voci più promettenti dell’Islam moderato come Rached Gannouchi, presidente del partito musulmano Ennhada.
Mostrare al mondo il proprio modello di pace, prosperità e giustizia è solo il primo passo che una potenza «normativa» come la Ue può compiere. Il passo successivo è quello di intercettare, dialogare, supportare quei leader e quelle organizzazioni che possano (anche se non subito) cambiare dall’interno i regimi illiberali dei propri Paesi. Solo l’elefante Europa ha le risorse culturali e reputazionali per imboccare questa strada. Peraltro la sola strada che le gambe malferme della Ue possono sorreggere in questo momento.