L’America e noi: da anni, tranne rare eccezioni (come questa…) sulla scena pubblica italiana il punto di vista conservatore non gode certo dello spazio riservato agli innovatori
Per noi europei fare i conti con Trump non significa solo renderci conto della frattura che egli ha creato nella politica estera americana e nei rapporti tra noi e gli Usa. Deve significare anche capire perché Trump ha vinto, perché una maggioranza di americani si è riconosciuta nel suo programma che ai loro occhi, alla fine, non consisteva altro che in un punto: contrastare l’orientamento progressista che negli ultimi due/tre decenni ha radicalmente mutato il volto ideologico-culturale della società americana e insieme delle nostre.
È dunque questo il cuore della sfida che la presidenza americana pone all’Europa: di natura culturale prima ancora e ben più che politica. Si tratta di una sfida rivolta soprattutto alle élite europee, in modo tutto particolare di questa parte occidentale dell’Europa. Una sfida ai valori, ai modelli, ai comportamenti accreditati, ai costumi, che in tutti questi anni quelle élite hanno alimentato e che si riassumono in una sola parola: nel loro «nuovismo» progressista.
Se n’è accorto in un’intervista a Repubblica anche una figura centrale di tale élite come Giuliano Amato, il quale sembra concludere che forse è venuto il momento di fare qualche passo indietro. Quello che è avvenuto nel corso degli ultimi decenni nello spirito pubblico dei Paesi del nostro continente è stato un mutamento che le élite europee, lungi dal cercare non dico di contrastare, ma perlomeno di correggere o mitigare, hanno viceversa più o meno sempre assecondato. In tal modo esse hanno abbandonato la difesa di valori e principi che avevano pur presieduto alla loro personale formazione e un tempo anche alla loro azione.
Parliamo del nostro Paese. Da molto tempo pressoché tutte le élite italiane – quelle intellettuali in primis e insieme a loro quelle del mondo dei mass media, del cinema, dell’informazione, immediatamente seguite anche da quelle del denaro, dell’industria, dalle élite dell’amministrazione pubblica e delle più varie organizzazioni sindacali – tali élite, dicevo, hanno abbracciato ogni novità. Hanno condiviso ogni rottura del costume, ogni adozione di idee nuove, ogni abiura delle tradizioni e dei valori ricevuti.
Che si trattasse della riproduzione della vita e dei modi della morte, dei caratteri della genitorialità o della morale sessuale, del significato della famiglia, della pace e della guerra, di trasformare ogni bisogno in un diritto, che si trattasse del rapporto con l’Unione europea e con le sue prescrizioni o della presenza nella Penisola degli immigrati, dell’organizzazione degli studi nella scuola e nell’università, o di mille altre cose, immancabilmente tutta l’Italia che contava, che agiva nella società, in specie tutta quella che aveva una forte immagine pubblica e il modo di farsi ascoltare dal Paese ha abbracciato il partito dell’«ideologicamente corretto» equivalente quasi sempre in un fiducioso impegno a favore del cambiamento e — quando andava bene — in un atteggiamento di supponente superiorità, se non di aggressiva ostilità, nei confronti di chi la pensava diversamente.
Da anni, non l’Italia della politica e dei partiti — la quale da questo punto di vista non conta nulla essendo priva di idee e quindi fungendo solo come eco di quelle altrui — ma l’Italia che in questo genere di faccende davvero conta, l’Italia dei libri e dei giornali, dello spettacolo, dei talk e della pubblicità, è schierata costantemente con chi pensa che si debba essere sempre «aperti» a ciò che rompe con l’esistente, a ciò che cambia le regole e manda in soffitta il passato. È l’Italia — puntualmente imitata dalle altre élite sociali — che crede che quanto è suggerito dalla novità dei tempi, ed è «liberal» e parla inglese sia sempre migliore e più conveniente di quanto esisteva ieri o parla italiano.
Ciò che è tipico di un Paese di così scarsa cultura liberale come il nostro, questa Italia che si vuole progressista ha da sempre l’abitudine di rifiutare ogni vero dibattito, ogni discussione, negando la dignità di interlocutore a chi non la pensa come lei, definendolo il più delle volte reazionario se non fascista, e restando tutta giuliva da sola a cullarsi nelle sue certezze. Da anni, tranne rare eccezioni (come questa…) sulla scena pubblica italiana il punto di vista conservatore non gode certo dello spazio riservato agli innovatori. Per non dire dell’ostracismo che da noi ha una qualunque voce religiosa che non sia pappagallescamente allineata.
Per molta parte delle classi popolari questa egemonia del nuovismo ha significato uno strappo doloroso con la propria identità, per mille ragioni ancora molto radicata nel passato. Tanto più in quanto si è trattato di uno strappo condannato al silenzio perché impossibilitato a fare sentire le proprie ragioni per discutibili o anche cattive che fossero. Drammaticamente decisivo in tale senso si è rivelato l’abbandono che da tempo la sinistra, Pd in testa, ha fatto della cultura popolare, la lontananza che i suoi quadri, tutti ormai di estrazione borghese, hanno verso l’antropologia, la sensibilità, la vita quotidiana e se si vuole anche i pregiudizi e le sordità degli strati più sfavoriti della popolazione. Una società senza élite è una società fintamente democratica. In realtà essa è pronta a cadere nelle mani del demagogo di turno e dell’incompetenza plebea. Ma le élite hanno l’obbligo assoluto di non chiudersi in se stesse: di restare cioè aperte a nuovi accessi, curando come loro primo dovere l’istruzione, e poi di ascoltare tutte le voci della società, non mettendo a tacere quelle che non gli piacciono. Se è vero, insomma che le società democratiche hanno bisogno delle élite, è anche vero che le sole élite accettabili sono quelle che curano esse prima di essere democratiche.
Non dimenticando che altrimenti il voto prima o poi le punirà: il voto a favore di chi si presenta come il castigamatti, come il vendicatore delle ragioni delle masse escluse dalle scelte unilaterali e arroganti delle élite, il rappresentante della gente comune vittima delle loro mode, dei loro tic ideologici, delle loro finte aperture. Trump ha scommesso sul futuro: che dopo gli Stati Uniti l’onda della protesta dal basso sommerga anche noi. Sta innanzi tutto alle élite europee stringersi ai propri popoli per far fallire i suoi piani.