Fonte: Corriere della Sera
di Sabino Cassese
Più in piazza che sui dossier i due vicepremier oscurano il Consiglio dei ministri: 58 i vertici, ma durano in media meno di un’ora
Un anno di governo: come è andata? Il 65° esecutivo della settantatreenne Repubblica ha giurato il 1° giugno del 2018, dopo una difficile gestazione di tre mesi. Fu composto per più del 40 per cento di pentastellati, per quasi il 30 per cento di leghisti, per poco più del 30 per cento di «indipendenti», con una percentuale di donne inferiore della metà a quella del Paese e un’età media nettamente superiore a quella degli italiani. Ha perduto per strada un ministro e un sottosegretario.
Il 5 giugno dell’anno scorso, nel presentare il governo al Parlamento, il presidente del Consiglio dichiarava che «la crescente disaffezione verso le istituzioni e la progressiva perdita di prestigio di chi ha l’onore di ricoprire cariche al loro interno devono spingere tutti noi a un supplemento di responsabilità». Possiamo ora dire che tale «supplemento di responsabilità» non c’è stato. L’esecutivo è composto di due forze politiche nuove definite populiste, ma in realtà leaderiste: chi ha mai sentito parlare, in quest’anno, gli organi collegiali dei due movimenti?
Infatti il Comitato di garanzia e il Collegio dei probiviri del M5S, e i Congressi federali e i Consigli federali della Lega (al plurale perché quella che chiamiamo Lega è in realtà composta di due diversi movimenti, la Lega Nord e la Lega per Salvini premier) sembrano afoni.
Nel governo duumvirale, poi, i duumviri hanno oscurato l’intero Consiglio dei ministri, con una progressiva verticalizzazione del potere. Il Consiglio si è riunito frequentemente (58 riunioni), ma brevemente (durata media meno di un’ora). I duumviri hanno fatto e disfatto, a spese dei ministri, chiamati a eseguire, per assenza di legittimazione propria. Sempre i duumviri si sono comportati come i galli nel pollaio, con un crescendo di screzi e accuse reciproche: totale indistinzione di compiti all’interno (uno sarebbe il ministro dell’Interno, l’altro il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro) e totale indistinzione tra funzioni di governo e ruolo di leader politici (anzi, uso della carica amministrativa come trampolino per conquistare nuovi consensi a spese del proprio «alleato» di governo).
Insomma, abbiamo sperimentato in quest’anno come si possa governare senza stare al governo, ma nelle piazze (uno dei duumviri non trascorrerebbe più di tre giorni al mese nel suo ufficio), senza studiare i «dossier», procedendo per slogan, senza rispetto per le altre istituzioni repubblicane e persino dei propri collaboratori, sulla base non di un’alleanza ma di un patto di scambi reciproci.
Si capisce, quindi, che la produzione legislativa dell’anno di governo sia una delle più basse, circa la metà di quella degli altri esecutivi. Se si escludono quelle di conversione di decreti legge e quelle di ratifica di trattati e accordi internazionali, le leggi approvate non raggiungono le venti unità. Numerosi, invece, i decreti legge e i decreti legislativi. Questo vuol dire che l’attività legislativa è stata svolta, in sostanza, non dal Parlamento, ma dal governo, che, a sua volta — per la debolezza illustrata —, ratifica decisioni prese in sede duumvirale. Ma anche questo accade tra mille difficoltà, perché il governo approva in bianco («salvo intese»), i testi vanno su e giù tra i duumviri e debbono ritornare in Consiglio dei ministri (è accaduto di recente per i decreti crescita e sblocca-cantieri). Il risultato consiste in norme costruite come salsicce, di decreti «omnibus», in cui ognuno mette qualcosa, in violazione del principio di omogeneità delle leggi.
Approvate le norme primarie, bisogna, poi, adottare i provvedimenti normativi secondari (in particolare, i regolamenti) e qui casca nuovamente l’asino: su più di 200 provvedimenti da approvare, tre quarti sono impantanati, attendono ancora di essere adottati. Se alle parole e alle norme non seguono i fatti, si capisce che le somme stanziate per opere pubbliche, non spese, rimangano tra i residui passivi.
Politiche e provvedimenti del governo hanno comunicato al Paese l’immagine di una società povera, corrotta, preoccupata dalla criminalità, che deve chiudersi per proteggersi dall’invasione degli immigrati, che ha bisogno di uomini forti, come se l’Italia non fosse il settimo Paese industrializzato, la corruzione reale non fosse molto più bassa di quella percepita, la criminalità in diminuzione, il numero di immigrati inferiore a quello dei maggiori Paesi europei, la «democrazia illiberale» vietata dalla Costituzione italiana e dal diritto europeo.
Il governo non è l’unico responsabile di questa situazione. Poiché democrazia è anche — secondo alcuni, soprattutto — competizione tra forze politiche, una parte della responsabilità di questo malgoverno è anche delle opposizioni inesistenti o incapaci di presentare una autentica offerta politica alternativa, permeate come sono, anche loro, di sentimenti populistici, o dominate da personalismi e dalla perenne tentazione di dividersi.
Il sistema costituzionale, per effetto di tutto questo, sta subendo una inedita torsione. Il Parlamento è controllato dalla Corte costituzionale, che può valutare la legittimità costituzionale delle leggi (e solo di recente si è dotata di uno strumento che potrebbe consentirle di valutare altri malfunzionamenti del ramo legislativo). Ma chi tiene d’occhio il governo, che è l’organo motore della nostra Costituzione? Si sente ora l’assenza di un organo di equilibrio e correzione, un organo che possa ricordare che il presidente del Consiglio dei ministri «dirige la politica generale del governo e ne è responsabile» (articolo 95 della Costituzione), non media tra i ministri; che i ministri sono a capo di amministrazioni pubbliche e debbono compiere il proprio dovere di amministratori, non andare in giro a fare dichiarazioni; che la distribuzione dei compiti tra i ministri è fatta per essere rispettata; che il ministro dell’Interno non deve imbracciare un mitra, perché rischia di farsi male (e perché il ministero dell’Interno non è un ministero di polizia); che l’attività legislativa spetta al Parlamento e solo «in casi straordinari di necessità e d’urgenza» (articolo 77 della Costituzione) al governo.
Non vogliamo finire, come nella «parabola dei ciechi», dove, secondo un poeta americano, «ciascuno/segue gli altri, bastone/in mano, trionfante verso/il disastro».