20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Franchi

Non sarebbe male ricordare quante volte, dagli anni Sessanta del Novecento in poi, i comunisti, e pure, in forme diverse, i democristiani e i socialisti, si sono accapigliati attorno ai temi e ai propositi enunciati come importanti novità nell’abbazia di San Pastore da Nicola Zingaretti


Un nuovo partito? Ma per carità. Passata la paura del 26 gennaio, e comunque voti l’Emilia Romagna, si tratterà piuttosto, ha assicurato Nicola Zingaretti, di mettere mano alla costruzione di un «partito nuovo», che forse continuerà a chiamarsi Pd, forse no, ma dallo spirito che soffiò, tredici anni fa, sul Pd delle origini dovrà essere informato. Nuovo partito, partito nuovo? Chi non sia addentro alla storia del Pci, faticherà assai, ammesso che la cosa possa interessarlo, a cogliere la differenza. Di nuovi partiti, in specie nella cosiddetta Seconda Repubblica, ne sono nati e morti un’infinità. Di «partiti nuovi», invece, ce ne sono stati solo due. Al centro la Democrazia cristiana, che fu altra cosa dal vecchio Partito popolare. E a sinistra il Pci messo in campo nel 1944, au retour de Moscou, da Palmiro Togliatti, in sintonia piena con Giuseppe Stalin e in discontinuità non dichiarata, ma non per questo meno netta, con il Pc d’I, sorto nel 1921 con la scissione di Livorno: un partito di massa e non più di rivoluzionari di professione, vocato a una politica di larghe alleanze piuttosto che a una logica settaria, impegnato nella battaglia per una «democrazia progressiva» piuttosto che nella ginnastica rivoluzionaria in attesa di una qualche ora x.
C’è stato un tempo, insomma, in cui le indicazioni strategiche, tradotte in formule e in slogan, duravano a lungo, e restavano sullo sfondo anche quando il mutare delle condizioni politiche e dei rapporti di forza induceva a torsioni tattiche spregiudicate: per la sinistra italiana, Togliatti è sempre rimasto l’amico fedele dell’Unione Sovietica fautore però di una via italiana al socialismo, e Berlinguer il segretario comunista che con l’Unione Sovietica cercò di allentare il più possibile i legami, negandosi sempre però — sia ai tempi del compromesso storico sia nei suoi ultimi anni, quelli della «terza via», della questione morale e della «diversità» comunista — a un approdo socialista o socialdemocratico. Ma stiamo parlando di un altro mondo, di un’altra Italia, e di altri partiti che, per impiantarvisi, avevano bisogno di radici profonde, di visioni e di culture politiche capaci di durare nel tempo, e quindi di risultare leggibili a milioni e milioni di persone, magari incapaci, o poco interessate, a coglierne limiti ed aporie, ma disposte a farle proprie, almeno a larghe linee, spesso per tutto il tempo della loro vita.
Di tutto questo — non solo a sinistra, non solo in Italia — non c’è traccia da un pezzo. Solo un mascalzone, direbbe Putin, può ricordarlo senza una punta di nostalgia, solo un pazzo può pensare di rieditarlo. Zingaretti sa bene, c’è da presumere, che, se fosse archiviata la figura del Pd per come lo si è conosciuto in questi anni, pochi si farebbero prendere dalla nostalgia, e pochissimi si darebbero da fare per riportarlo all’onor del mondo. Ma qualche motivo ci deve pur essere se, enunciando l’intenzione di cambiar volto al suo partito, rispolvera in un’abbazia del Reatino formule e persino tic lessicali di un passato ormai remoto. Conterà, certo, il fatto che Zingaretti fa parte dell’ultima generazione di dirigenti nati politicamente nel Pci–Pds, i cui anziani padri nobili (penso primo tra tutti ad Alfredo Reichlin) dell’esigenza di dar vita a un «nuovo partito nuovo» avevano parlato già alla metà del decennio scorso, ai tempi cioè della nascita del Partito democratico, prima di rendersi amaramente conto che non c’erano dei Togliatti in circolazione, ma tutt’al più dei Matteo Renzi. Conta però ancora di più il fatto che i partiti nuovi nascono, mettono radici e crescono sull’onda, prima ancora che di un programma, di un’intuizione del mondo e di un’idea di Paese capaci di parlare al cervello e al cuore della loro base politica e sociale, e di conquistare sul campo nuove forze e nuovi voti. Di dare, insomma, almeno l’impressione, sempre per far ricorso a un linguaggio antico, di venire da lontano e di andare lontano: un’impresa difficilissima, forse proibitiva, in tempi di post politica e di post democrazia. Questa impressione (chiamiamola così) il Pd non è mai stato in grado di darla, nemmeno alla lontana. Non è mai stato un partito, tradizionale o di tipo nuovo, ma un agglomerato elettorale, prima di post comunisti e post democristiani, poi di personalità e di gruppi di potere l’un contro l’altro armati. Costretto, nei momenti cruciali, a cercare nel passato le parole che gli mancano per parlare di sé, della propria natura, dei propri destini e di quelli del Paese.
Nessuno ha più memoria di nulla, è vero. Ma non sarebbe male ricordare quante volte, dagli anni Sessanta del Novecento in poi, i comunisti, e pure, in forme diverse, i democristiani e i socialisti, si sono accapigliati attorno ai temi e ai propositi enunciati come importanti novità nell’abbazia di San Pastore. Nessuno avrebbe immaginato di rivolgersi alle sardine, all’epoca soltanto pesce azzurro, come a degli interlocutori imprescindibili per costruire insieme un nuovo soggetto politico. Ma sulla necessità e sulla possibilità di aprire porte e finestre dei partiti prima ai movimenti, più tardi alla società civile e al «nuovo che avanza», esplosero memorabili polemiche, si divisero aspramente congressi, comitati centrali, consigli nazionali, si affermarono (e si persero) leadership, maturarono dolorose scissioni. Alla fine non se ne fece nulla, porte e finestre rimasero chiuse, i palazzi crollarono e sotto le macerie rimasero tanto i conservatori quanto gli innovatori. E’ lecito sperare che oggi le cose possano andare diversamente. Ma per crederci davvero, tenendo a bada il pessimismo dell’intelligenza, occorrerebbe disporre di una dose straordinaria di ottimismo della volontà.

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