È lecito fare il male per vincere il male? E può essere questo il modo di operare di un Paese democratico? Spetta alla politica assumersi la responsabilità di decidere, anche nella consapevolezza della tragicità morale di certe scelte
Quanto accade in Medio Oriente tra Israele e i suoi vicini — certo non da oggi, ma oggi con particolare evidenza — ripropone un tema cruciale: il rapporto tra democrazia e violenza. Lo fa interrogando sempre più spesso la coscienza di molti con una domanda: può un Paese democratico, com’è senza dubbio Israele, e sia pure nel corso di una guerra, usare la violenza in modi che spesso appaiono smisurati e perciò crudeli? Un regime democratico non dovrebbe porsi dei limiti per non correre il rischio di contraddire i suoi stessi principi?
La domanda è più che legittima. E tuttavia, se la storia conta qualcosa, ebbene allora la storia della democrazia — cioè la democrazia reale, non quella che a noi piace immaginare — mostra che essa ha spesso e volentieri (per non dire quasi sempre) praticato la violenza sia all’interno sia all’esterno dei confini. Rispetto ad essa non ha mai eretto un rifiuto di principio o di fatto.
Tralascio di riandare troppo indietro nel tempo. Di ricordare ad esempio come la democrazia è nata e si è affermata: la sua frequente decisione di sterminare i propri nemici, la sua propensione a «negare la libertà ai nemici della libertà», di alzare ghigliottine e tribunali popolari, di mettere «il terrore all’ordine del giorno». Sempre, ovviamente, allo scopo di rispondere a coloro che si opponevano alla sua affermazione o molto più spesso alle conseguenze che i suoi sostenitori volevano trarne.
Anche dopo avere vinto le guerre, la democrazia non sembra essersi dimostrata troppo propensa storicamente ad andarci leggera con i vinti. Terminata la guerra civile americana, ad esempio, i bianchi degli Stati del Sud pagarono la sconfitta con anni di una durissima, oppressiva discriminazione.
Siamo figli o eredi di una storia siffatta, forse dovremmo ricordarcelo più spesso. Anche la democrazia europea occidentale, con i suoi diritti e le sue ottime costituzioni, non è nata da un referendum popolare o da un’assemblea di illuminati legislatori. È nata, se vogliamo stare ai fatti, dalla vittoria riportata dai «buoni» contro i «cattivi» in una guerra terribile in cui il maggior numero dei morti non si è verificato tra i soldati ma tra i civili. Sì, tra i civili: precisamente come oggi sta accadendo a Gaza e dintorni, se è permesso ricordarlo. Gli Alleati ebbero la meglio sulla Germania nazista bombardando tutto quello che potevano bombardare, polverizzando scuole e ospedali senza preoccuparsi in alcun modo di chi ci stava dentro. Gli ordigni al fosforo piovuti su Amburgo o Dresda ammazzarono nel modo più atroce donne, vecchi e bambini, non schiere di Waffen SS pronte al combattimento. E si trattò, come sappiamo, solo di una blanda anticipazione di quello che sarebbe accaduto a Hiroshima e Nagasaki. È ben noto anche il trattamento che l’Armata Rossa riservò alla popolazione femminile tedesca: per settimane e settimane una serie ininterrotta di crimini di guerra.
Eppure non ricordo che in tutti questi decenni ci sia stato mai nessuno nel grande campo della democrazia europea, nessun intellettuale importante, nessun partito, nessun esponente religioso, che su quanto accaduto allora, sull’atto di nascita di una storia che fino a prova contraria è la nostra storia, abbia avuto qualcosa da ridire, si sia almeno posto una domanda. La terribile domanda: è lecito fare il male per vincere il male? Davvero un singolare contrasto con la situazione odierna, quando invece a proposito del conflitto in Medio Oriente tanti sembrano conoscere la risposta giusta e non esitano a gridarla ai quattro venti.
Il fatto è che in tutto questo tempo il nostro giudizio sulle cose aspre e dure del mondo, sui conflitti che coinvolgono i popoli e gli Stati, tale giudizio, dicevo, da storico e politico che era in precedenza ha preso sempre di più un carattere diverso. Sempre di più si è tramutato in giudizio etico-giuridico. Convincendoci di conseguenza che sia solo il diritto — incarnato nelle leggi, nei trattati e nelle organizzazioni internazionali con i relativi tribunali — a poter definire che cosa è giusto e che cosa non lo è. Ma l’etica non può essere ridotta al diritto puro e semplice e ai suoi enunciati. Le contese umane, lo scontro dei valori, le emozioni degli individui e dei popoli — tutto ciò che muove la politica e di cui allo stesso tempo la violenza si alimenta — non sopportano oltre una certa misura di essere racchiuse nella definizione formale e astratta delle fattispecie giuridiche. Rimane sempre uno spazio diverso e irriducibile dove a decidere è chiamato il nostro convincimento circa quello che in una determinata situazione l’insieme delle circostanze impone che «si debba» fare. La massima espressione della politica sta per l’appunto nell’assumersi questa responsabilità di decidere e nella consapevolezza della tragicità morale di certe scelte: ad esempio in quella di ricorrere alla violenza, magari la più feroce e distruttiva. Affidando il giudizio ultimo su una tale decisione e sulle sue conseguenze non a un tribunale, ma solo alla storia.