La disgregazione si concentra nelle periferie delle nostre grandi città, dimenticate nei due anni di pandemia. E il risultato è stato il distacco dal voto alle Amministrative
La cronaca nera, a leggerla con buone lenti, offre talvolta scorci di sociologia politica. Quella degli ultimi mesi e soprattutto delle settimane più recenti, da Capodanno a oggi, dalle aggressioni sessuali di massa in piazza Duomo fino alle guerriglie «etniche» delle gang di quartiere, delinea una sfida gravosa anche per il futuro presidente della Repubblica: ricucire l’Italia, divisa ormai in un Paese di Sopra e un Paese di Sotto , uno che ce la fa e l’altro che ha smarrito persino la voglia di farcela e s’è rassegnato a sprofondare.
Quattro anni or sono, ad esempio, lo stragista Luca Traini ci svelò l’intolleranza xenofoba di una comunità spaventata dalle migrazioni fuori controllo: non c’era nulla da giustificare ma molto da correggere a monte del raid razzista con cui terrorizzò Macerata e l’Italia. Le violenze di questa recente stagione, compiute da giovani nordafricani o italiani di seconda generazione con famiglia immigrata, sovente mischiati a ragazzi autoctoni in un unico brodo periferico di sottocultura machista, rap, Islam fai-da-te e rivolta social, sono una spia non meno potente di un altro cortocircuito: in atto dentro angoli della società dove abbiamo smesso di guardare per paura di scoprire ciò che non ci piace, confortati dall’alibi del Covid che tutto ha sigillato sottovuoto.
È curioso, ma forse anche significativo, che l’analisi più interessante di questo periodo non sia venuta da un sociologo, ma da un carabiniere, anzi, dal loro capo, il comandante dell’Arma. In un’intervista a La Stampa, il generale Teo Luzi ha posto l’accento sul malessere sociale (che per molti soloni sarebbe invece solo una giustificazione da accantonare), sottolineando che la pandemia ha creato disparità economiche, amplificato il disagio giovanile e ha cambiato luoghi e modi di trovarsi dei ragazzi anche per la nota, difficile situazione scolastica: da Roma alla Versilia, da Milano a Torino, le bande giovanili, un mix di emarginazioni e frustrazioni, richiedono lavoro di analisi e prevenzione.
Dunque, proviamo a guardare un po’ più da vicino in quell’angolo buio, superando il primo riflesso di imbarazzo, dovuto all’origine nordafricana di buona parte dei protagonisti delle ultime violenze (gli assalti sessuali di Capodanno, così simili, se non per dimensioni per modalità, a quelli di sei anni prima contro le donne di Colonia); un riflesso dettato dal comprensibile timore di fornire propellente a una propaganda razzista che già troppi danni ha fatto al nostro Paese. Come scrive un’esperta di integrazione quale Karima Moual, bisogna invece proclamare senza timore che la subcultura di provenienza di questi ragazzi è intrisa di sopraffazione maschile già nel modello familiare. E proprio in quel modello, nel ghetto etnico dei padri, si rifluisce di fronte all’integrazione mancata. Ma se l’integrazione è il problema, aggravato peraltro da una pessima legge sulla cittadinanza che ancora non considera connazionali centinaia di migliaia di adolescenti e giovani nati da noi e cresciuti nelle nostre scuole, è ragionevole domandarsi quanta integrazione ci possa davvero essere in un contesto disgregato tanto per gli italiani quanto per gli stranieri, che mostra crepe profonde e che non è stato certo ancora risanato dai pur lodevoli intenti del Pnrr (peraltro ancora, come si dice, da «mettere a terra» in gran parte).
I ragazzi delle gang, nordafricani o autoctoni, sono solo un pezzo del Paese di Sotto: il più rabbioso e visibile. Le diseguaglianze col Paese di Sopra erano già assai accentuate prima della pandemia. Secondo il rapporto Disuguitalia 2021 di Oxfam, allo scoppio dell’emergenza sanitaria più del 40% degli italiani non aveva risparmi sufficienti per vivere, in assenza di reddito o altre entrate, «sopra la soglia di povertà relativa per oltre tre mesi». La ricchezza del 5% più ricco degli italiani era superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. A fine estate 2020, il 20% delle famiglie con minori sotto i 14 anni ha ridotto o abbandonato il lavoro per accudire i figli e le donne sono state come sempre le più penalizzate. Gli interventi compensativi di questi anni non hanno avuto (e non potevano avere) carattere strutturale di contrasto alle diseguaglianze. Secondo la Fondazione Moressa, in una crisi che ha toccato soprattutto i precari e le filiere del lavoro stagionale, gli stranieri in proporzione sono stati colpiti maggiormente: è loro un terzo dei 456 mila posti di lavoro persi nel 2020. Gli aumenti generalizzati e l’inflazione risorta in questi mesi andranno a infierire su un tessuto già assai provato, al netto dei tentativi di sterilizzare il caro-bollette, di bonus e sussidi.
Non è difficile capire come la quota più significativa di questo malessere trasversale si concentri nelle periferie delle nostre grandi città, particolarmente dimenticate in questi due lunghi anni. L’ultimo serio lavoro di ascolto e comprensione del loro contesto si deve a una Commissione parlamentare della passata legislatura, che dopo un anno di sopralluoghi dichiarò di avere «scoperto un’Italia di serie B» e snocciolò una potente ricetta di interventi strutturali, mai seguita nella legislatura corrente. Il risultato è stato, alle Amministrative dello scorso autunno, un clamoroso distacco dal voto, chiaro messaggio alla politica tutta contro la marginalità percepita, il tasso di disoccupazione, l’abbandono scolastico, il tempo richiesto per ottenere la riparazione di un ascensore rotto nelle case di edilizia popolari. La risposta del mondo degli irrilevanti ha prodotto nelle periferie da Roma a Milano, da Torino a Napoli, toccando persino Bologna, affluenze appena sopra il 40%. Questa Italia sommersa, e che mantiene la testa sott’acqua, rischia di rammentare antiche distinzioni tra Paese legale e Paese reale, in questo caso con un Paese reale che, quando può votare, si mostra convinto che il suo voto non serva a nulla e comunica un rancore che può diventare violenza di piazza.
Intendiamoci: il Pnrr coi suoi miliardi può fare molto, ammesso che riusciremo a spenderli bene e in tempo. Ma anche se così fosse, i soldi non risolveranno tutto. Un simile squarcio nella grande tela nazionale si può ricucire solo ripristinando ciò che Gramsci chiamava «connessione sentimentale» con questa parte, tanto rilevante, di comunità smarrita. È auspicabile e, chissà, persino plausibile, che, al netto della cultura di provenienza e delle alleanze determinanti alla sua elezione, la più alta autorità morale del Paese possa sentire in un prossimo futuro il bisogno di partire proprio da lì.
Quattro anni or sono, ad esempio, lo stragista Luca Traini ci svelò l’intolleranza xenofoba di una comunità spaventata dalle migrazioni fuori controllo: non c’era nulla da giustificare ma molto da correggere a monte del raid razzista con cui terrorizzò Macerata e l’Italia. Le violenze di questa recente stagione, compiute da giovani nordafricani o italiani di seconda generazione con famiglia immigrata, sovente mischiati a ragazzi autoctoni in un unico brodo periferico di sottocultura machista, rap, Islam fai-da-te e rivolta social, sono una spia non meno potente di un altro cortocircuito: in atto dentro angoli della società dove abbiamo smesso di guardare per paura di scoprire ciò che non ci piace, confortati dall’alibi del Covid che tutto ha sigillato sottovuoto.
È curioso, ma forse anche significativo, che l’analisi più interessante di questo periodo non sia venuta da un sociologo, ma da un carabiniere, anzi, dal loro capo, il comandante dell’Arma. In un’intervista a La Stampa, il generale Teo Luzi ha posto l’accento sul malessere sociale (che per molti soloni sarebbe invece solo una giustificazione da accantonare), sottolineando che la pandemia ha creato disparità economiche, amplificato il disagio giovanile e ha cambiato luoghi e modi di trovarsi dei ragazzi anche per la nota, difficile situazione scolastica: da Roma alla Versilia, da Milano a Torino, le bande giovanili, un mix di emarginazioni e frustrazioni, richiedono lavoro di analisi e prevenzione.
Dunque, proviamo a guardare un po’ più da vicino in quell’angolo buio, superando il primo riflesso di imbarazzo, dovuto all’origine nordafricana di buona parte dei protagonisti delle ultime violenze (gli assalti sessuali di Capodanno, così simili, se non per dimensioni per modalità, a quelli di sei anni prima contro le donne di Colonia); un riflesso dettato dal comprensibile timore di fornire propellente a una propaganda razzista che già troppi danni ha fatto al nostro Paese. Come scrive un’esperta di integrazione quale Karima Moual, bisogna invece proclamare senza timore che la subcultura di provenienza di questi ragazzi è intrisa di sopraffazione maschile già nel modello familiare. E proprio in quel modello, nel ghetto etnico dei padri, si rifluisce di fronte all’integrazione mancata. Ma se l’integrazione è il problema, aggravato peraltro da una pessima legge sulla cittadinanza che ancora non considera connazionali centinaia di migliaia di adolescenti e giovani nati da noi e cresciuti nelle nostre scuole, è ragionevole domandarsi quanta integrazione ci possa davvero essere in un contesto disgregato tanto per gli italiani quanto per gli stranieri, che mostra crepe profonde e che non è stato certo ancora risanato dai pur lodevoli intenti del Pnrr (peraltro ancora, come si dice, da «mettere a terra» in gran parte).
I ragazzi delle gang, nordafricani o autoctoni, sono solo un pezzo del Paese di Sotto: il più rabbioso e visibile. Le diseguaglianze col Paese di Sopra erano già assai accentuate prima della pandemia. Secondo il rapporto Disuguitalia 2021 di Oxfam, allo scoppio dell’emergenza sanitaria più del 40% degli italiani non aveva risparmi sufficienti per vivere, in assenza di reddito o altre entrate, «sopra la soglia di povertà relativa per oltre tre mesi». La ricchezza del 5% più ricco degli italiani era superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. A fine estate 2020, il 20% delle famiglie con minori sotto i 14 anni ha ridotto o abbandonato il lavoro per accudire i figli e le donne sono state come sempre le più penalizzate. Gli interventi compensativi di questi anni non hanno avuto (e non potevano avere) carattere strutturale di contrasto alle diseguaglianze. Secondo la Fondazione Moressa, in una crisi che ha toccato soprattutto i precari e le filiere del lavoro stagionale, gli stranieri in proporzione sono stati colpiti maggiormente: è loro un terzo dei 456 mila posti di lavoro persi nel 2020. Gli aumenti generalizzati e l’inflazione risorta in questi mesi andranno a infierire su un tessuto già assai provato, al netto dei tentativi di sterilizzare il caro-bollette, di bonus e sussidi.
Non è difficile capire come la quota più significativa di questo malessere trasversale si concentri nelle periferie delle nostre grandi città, particolarmente dimenticate in questi due lunghi anni. L’ultimo serio lavoro di ascolto e comprensione del loro contesto si deve a una Commissione parlamentare della passata legislatura, che dopo un anno di sopralluoghi dichiarò di avere «scoperto un’Italia di serie B» e snocciolò una potente ricetta di interventi strutturali, mai seguita nella legislatura corrente. Il risultato è stato, alle Amministrative dello scorso autunno, un clamoroso distacco dal voto, chiaro messaggio alla politica tutta contro la marginalità percepita, il tasso di disoccupazione, l’abbandono scolastico, il tempo richiesto per ottenere la riparazione di un ascensore rotto nelle case di edilizia popolari. La risposta del mondo degli irrilevanti ha prodotto nelle periferie da Roma a Milano, da Torino a Napoli, toccando persino Bologna, affluenze appena sopra il 40%. Questa Italia sommersa, e che mantiene la testa sott’acqua, rischia di rammentare antiche distinzioni tra Paese legale e Paese reale, in questo caso con un Paese reale che, quando può votare, si mostra convinto che il suo voto non serva a nulla e comunica un rancore che può diventare violenza di piazza.
Intendiamoci: il Pnrr coi suoi miliardi può fare molto, ammesso che riusciremo a spenderli bene e in tempo. Ma anche se così fosse, i soldi non risolveranno tutto. Un simile squarcio nella grande tela nazionale si può ricucire solo ripristinando ciò che Gramsci chiamava «connessione sentimentale» con questa parte, tanto rilevante, di comunità smarrita. È auspicabile e, chissà, persino plausibile, che, al netto della cultura di provenienza e delle alleanze determinanti alla sua elezione, la più alta autorità morale del Paese possa sentire in un prossimo futuro il bisogno di partire proprio da lì.