Il voto in Basilicata e gli equilibri. Il successo del centrodestra. La coalizione Pd-M5S non decolla. Per entrambi gli schieramenti ci sono però questioni da risolvere
Sarà stata pure un’elezione «minore», sovrastata da vicende nazionali. Ma il voto in Basilicata, al di là della vittoria netta del centrodestra, lascia indizi significativi; e potenzialmente utili per indovinare le dinamiche che peseranno sulle Europee di giugno. Il primo, negativo, è l’ulteriore calo dei votanti: la partecipazione si è fermata sotto il cinquanta per cento. Il secondo è la crescita col proprio candidato Vito Bardi di FI, ampiamente sopra la Lega. Spicca il buon risultato di Azione e Iv, alleati della destra. E si conferma il primato di FdI, pur contenuto.
Il terzo indizio è l’ennesimo smacco per la coalizione tra Pd e M5S.I grillini prendono metà dei voti del partito di Elly Schlein. E nella sconfitta bruciante delle opposizioni pesa senz’altro il pasticcio locale delle candidature bruciate una ad una. Forse ha influito anche lo scontro feroce delle ultime settimane tra la segretaria del Pd e il capo dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte. In aggiunta si può contare lo scandalo che ha investito il Pd nella regione limitrofa, la Puglia. Ma al fondo rimane la sensazione dell’inadeguatezza dell’alleanza tra la sinistra e il movimento di Conte.
Lo scarto in Basilicata, se confermato a livello europeo, accentuerà il conflitto su chi guiderà quello schieramento virtuale. E acuirà lo scontro di qui a giugno, aumentando la tendenza del M5S a distinguersi dal Pd. Il fatto che Schlein sia stata costretta a ritirare precipitosamente l’idea di mettere il proprio nome sulla scheda, perché «divisiva», dice molto. Conferma quanto sia in bilico la sua leadership, e alto il timore di un insuccesso europeo. Se riteneva con quell’idea di offrire un «di più» in termini di voti, il partito che guida non ci crede.
Ma soprattutto, l’ipotesi è stata ritenuta maldestra nel momento in cui il Pd attacca la riforma del premierato di Giorgia Meloni. Sarebbe stato difficile spiegarlo, personalizzando il profilo del partito. E non è detto che sia finita, perché il «padre nobile» Romano Prodi continua a esprimere la sua contrarietà alle candidature di facciata: nel senso che se Schlein fosse eletta, non andrebbe comunque a Bruxelles. È un altro distinguo non da poco, quando l’accusa è di provocare in questo modo una «ferita alla democrazia»: né più né meno di Meloni, nell’ottica di Prodi e di chi la pensa come lui, a cominciare dallo stesso Conte.
Si rafforza il sospetto che tutto questo si iscriva in una diffidenza verso la leader; che le resistenze e le riserve emerse sulle candidature siano destinate a ritornare su altri temi. Se il Pd riuscisse a superare la soglia anche psicologica del venti per cento, gli oppositori interni avrebbero maggiori difficoltà a scalzarla. Ma il tema della resa dei conti interna c’è tutto. Per la coalizione di governo si tratta di un problema in meno.
D’altronde, si è capito da tempo che le vere difficoltà, se ci saranno, si presenteranno all’interno del suo schieramento. Hanno un nome e un cognome: quelli di Matteo Salvini, capo storico della Lega. Il travaso di voti dal Carroccio al partito berlusconiano dell’altro vicepremier Antonio Tajani in Basilicata non sottolinea solo la crescita della componente moderata. Continua a evidenziare l’affanno salviniano rispetto a un elettorato poco convinto della deriva estremista.
Schlein deve fare i conti con un partito difficile da pacificare, e con un asse col grillismo che produce soprattutto polemiche e recriminazioni. Meloni, invece, nella prospettiva di giugno ha di fronte una Lega che i sondaggi descrivono destinata a perdere due terzi dei voti rispetto alle Europee del 2019; e un Salvini che potrebbe risultare indebolito a tal punto da inserire un’incognita sugli equilibri della maggioranza. L’altro interrogativo, tutto da verificare, riguarda il tema dell’antifascismo, riproposto in modo maldestro dalla cerchia della premier.
È una questione scivolosa non tanto per i riflessi sull’elettorato italiano ma per le ripercussioni europee. Il modo in cui le opposizioni puntano il dito sulle ambiguità di FdI contiene evidenti elementi di strumentalità. Non basta, però, a cancellare l’insidia di un dibattito che sembra costringere Palazzo Chigi sulla difensiva, vittima di un autogoal; e a rendere la Festa della Liberazione del 25 aprile dal fascismo una data non di unità, ma di imbarazzante e inaccettabile discordia.