Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Dagli anni Ottanta i poteri dei ministri sono passati agli esperti, cancellando nei programmi ogni valenza formativa. E, per gli alunni, l’insegnamento ora è insignificante
Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia. La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione. Allo scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere (c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano rappresentare.
Radici classiche
Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di tutti i gradi dell’istruzione. È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante, credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice. Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.
Chi decideva gli ordini di studio
Tutto ciò, ripeto — dalla nascita dello Stato italiano fino a un dipresso al 1960 — è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.
Investimento collettivo
È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla «selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere «libera» e di «contare». Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato.
Professori in piazza e valori forti
A partire comunque dalla metà dei Sessanta, in ognuno di questi modi la scuola e l’istruzione divennero per anni e anni il luogo del più aspro e violento conflitto sociale, perfino la palestra per ambigui esercizi di sapore eversivo. Per la politica dunque un terreno minato: di cui essa cominciò ad avere paura, sempre più paura. L’incubo di ogni governo, e in specie di ogni ministro con sede a viale Trastevere, divenne quello di avere scuole e università occupate e studenti e professori in piazza: con esiti sempre incerti e spesso drammatici. Unico risultato per lui certo l’impopolarità. Fu così che alla lunga cominciò a profilarsi la svolta. La politica decise che era meglio sgomberare il campo. Nella grande crisi della politica che a partire dagli anni Ottanta ha annunciato e poi accompagnato massicciamente la globalizzazione — con la conseguente ritirata della politica stessa e dello Stato dalla società — l’istruzione è stata la prima trincea ad essere abbandonata. La prima non a caso. L’abbandono segnalava che stavano ormai venendo meno partiti e culture politiche nutrite di idee e di valori forti. In grado di esprimere in qualche modo un progetto complessivo di società, di credere realmente in un tale progetto, e su tale base addirittura di assumersi il compito di trasfonderne il senso nella formazione delle nuove generazioni, dirigendo contenuti e modi di questa attraverso la scuola. Tutto ciò doveva ormai essere considerato impossibile.
«Impersonalità efficientistica»
Specialmente in Italia, dove in quel fine secolo gli attori politici e la sfera stessa della politica erano sottoposti a un massiccio processo di delegittimazione che si sarebbe sempre più accentuato. E dove gli effetti dell’avanzata della modernità — quella modernità capace per sua natura di «sciogliere tutto ciò che è solido», secondo la profezia di Marx — erano resi ancor più dirompenti dal non trovare alcun ostacolo in una società dall’antico carattere «gelatinoso», priva di una radicata tradizione cultural-nazionale sul modello francese della quale le istituzioni si considerassero tutrici. Priva di qualunque fiducia non solo nelle proprie capacità direttive, ma anche nel senso storico che poteva ancora avere una tale direzione, la politica italiana da allora in poi ha abbandonato dunque la scuola. Lo ha fatto consegnandone velocemente e progressivamente tutti gli spazi a due «dispositivi», che poi non erano che altrettanti feticci della modernità: la «tecnica» e l’«autonomia». La tecnica nelle sue più varie forme e accezioni: dal vastissimo campionario delle prescrizioni circa le modalità presunte «scientifiche» d’insegnamento e di accertamento dei risultati degli studenti, alle procedure di reclutamento e di selezione del personale sempre più dominate dall’impersonalità efficientistica del questionario, del test, ovvero da sistemi preformati di autovalutazione, per finire con la panoplia di strumentazione telematica (lavagne elettroniche, computer, e quant’altro) somministrata in dosi tanto massicce quanto dagli esiti didatticamente e culturalmente quasi sempre nulli.
Mirabile accozzaglia di progetti
Dall’altro canto l’autonomia: da quella degli insegnanti a quella degli istituti. La quale autonomia, al di là delle virtuose chiacchiere democratiche, in realtà ha corrisposto a null’altro che al desiderio da parte del centro politico-ministeriale di spogliarsi — complice il più sciagurato dei regionalismi — di ogni responsabilità, in certa misura perfino finanziaria, riguardo l’intero insieme dell’istruzione. Che così ne è uscito inevitabilmente frantumato, segmentato per linee di divisione geografica e sociale nonché di capacità economiche, drammaticamente diviso tra Nord e Sud, in balia delle più casuali e incontrollate capacità (o incapacità) di questo o di quello. Privata della bussola di una direzione politica unitaria la nostra scuola si presenta oggi, così, come una mirabile accozzaglia di progetti, iniziative, corsi, attività, offerte formative che con i più vari obiettivi spaziano sui più vari ambiti.
Vacuo cosmopolitismo
A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti», assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale». Così come è stata cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha cambiato realmente nulla. Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica» apposto al sostantivo «istruzione» — che fino a qualche tempo fa, ma ora non più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per l’appunto a quell’ambito — si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del congedo della politica dall’istruzione stessa.
Dimensione a a dimensione tecnico-operativa
È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo — si può immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere perseguito — di fare di essa la matrice del carattere e della personalità. La scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura. Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente con un computer. Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci riesce nemmeno al terzo tentativo.