Fonte: Corriere della Sera
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Le forze politiche dovrebbero spiegare che la povertà non si riduce con la redistribuzione. Occorre eliminare un po’ di burocrazia per liberalizzare l’economia
l nostro reddito pro capite è fermo dall’inizio del decennio scorso. Nel 2014 era sceso del 4 per cento: oggi, grazie alla ripresa della crescita negli ultimi tre anni, è tornato al livello del 1999. Il risultato di questa lunga stagnazione è che ci siamo impoveriti rispetto al resto dell’Europa. Nel 1999 il reddito pro capite spagnolo era inferiore al nostro del 20 per cento, ora la Spagna ci ha superato. Fra il 2010 e il 2014 il governo di Madrid ha tagliato la spesa pubblica un po’ più dell’1 per cento del Pil ogni anno(in Italia vorrebbe dire circa 18 miliardi di tagli l’anno). Oggi la Spagna cresce al 3 per cento, il doppio di noi. Non solo. Anche Irlanda e Portogallo sono usciti meglio di noi dalla grande recessione pur avendo attuato programmi di austerità ben più draconiani del nostro. È comprensibile che dopo una stagnazione ventennale l’umore degli italiani non sia buono. Forze politiche responsabili dovrebbero però spiegare che la povertà si riduce con la crescita, non solo con la redistribuzione. Se non si cresce, prima o poi rimane ben poco da redistribuire e si precipita in un circolo vizioso: meno crescita, più tasse per redistribuire le poche risorse disponibili, ancor meno crescita e così via. È quello che accadde in alcuni Paesi dell’America Latina negli anni Settanta: una lezione da non scordare. Dopo alcuni anni propizi si avvicinano nuvole pericolose. Una possibile guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti con l’Europa che ne paga parte dei danni.
Il rallentamento della Cina, che rappresenta il 15 per cento dell’economia mondiale, è iniziato prima della guerra commerciale. L’aumento del prezzo del petrolio, salito del cinquanta per cento in un anno. Alcuni modelli di previsione già segnalano gli effetti preoccupanti di questo possibile temporale. Non è il momento di sperperare quel poco di crescita che abbiamo costruito grazie anche alle riforme degli anni scorsi. Se non la rafforziamo presto rimarrà ben poco da redistribuire.
Nei due mesi trascorsi dalle elezioni politiche i partiti si sono parlati, e divisi, su formule variopinte nel tentativo di conquistare Palazzo Chigi, quasi fosse quello il passaggio essenziale. Dovrebbero capire che il deficit italiano è un deficit di crescita. Quale che sia l’esito delle consultazioni, dei colloqui, è da lì che si deve ripartire. Una consapevolezza nelle settimane scorse non c’è stata. E questo non getta una buona luce sul futuro dell’Italia. La logica tutta redistributiva del programma del M5S ne è un prova.
Si dovrebbe innanzitutto abbandonare la nefasta idea di abolire la legge Fornero. La partecipazione al lavoro in Italia delle persone fra i 55 e i 64 anni (cioè la somma di coloro che lavorano più coloro che, non avendolo, cercano attivamente un lavoro) è fra le più basse in Europa: il 53 per cento, contro il 71 in Germania. Lo stesso è vero per i giovani fra i 15 e i 24 anni: 26,6 per cento, contro 49 in Germania, 37 in Francia. Abolire la legge Fornero, come vorrebbero Lega e M5S, abbasserebbe ancor più la partecipazione al lavoro degli adulti consolidando un modello sociale in cui genitori ancora relativamente giovani finanziano con le loro pensioni figli che non trovano lavoro (e spesso neppure lo cercano) per via delle tasse che pesano su chi lavora. Tasse che non possono essere abbassate perché bisogna pagare le pensioni dei loro genitori. E così i giovani vivono in casa più a lungo, hanno prospettive di lavoro incerte, non riescono a formare una famiglia e hanno meno figli, aggravando la crisi demografica, che significa tasse più elevate per chi lavora. Insomma un girone perverso.
La nostra aspettativa di vita è fra le più alte al mondo (87 anni per le donne, 81 per gli uomini). Nonostante questo l’anno scorso tutti i partiti presenti in parlamento volevano abolire l’indicizzazione dell’età pensionabile all’ aspettativa di vita (solo la determinazione di Paolo Gentiloni lo ha impedito). Lo si potrà fare, ma solo dopo aver aumentato, e di molto, partecipazione al lavoro e produttività.
Della scuola nessuno ha parlato durante la lunga campagna elettorale. I test Pisa sostenuti dai quindicenni mostrano che la nostra scuola lascia indietro troppi ragazzi e ciononostante non produce molti studenti particolarmente bravi. Se si confrontano i «bravi» con chi ha i risultati peggiori, in Germania i primi sono il 15 per cento del totale degli studenti che hanno sostenuto il test, mentre quelli che ottengono i risultati sotto la media sono il 9,8 per cento. I due numeri in Italia sono 13,5 e 12,2. Perché? Una ragione importante è l’organizzazione delle scuole. Quelle in cui i ragazzi ottengono i risultati migliori, un po’ dovunque al mondo, sono le scuole in cui l’organizzazione è affidata ad un dirigente locale che può assumere e licenziare i suoi insegnanti e decidere i programmi, con interferenze minime da parte di un ministero nazionale.
Il nostro debito pubblico non ci permette i tagli di imposte mirabolanti promessi da M5S e centrodestra. Ma ciò non significa che non si possano ridurre le aliquote sul lavoro, senza aumentare l’Iva, finanziandole con tagli di spesa. Ai livelli di imposizione dei Paesi Ocse riduzioni delle tasse aumentano la domanda privata a sufficienza per poter compensare tagli alla spesa pubblica, mentre aumenti di imposte per finanziare aumenti di spesa sono recessivi. Si possono ridurre le imposte sul lavoro aumentando il costo di alcuni servizi pubblici facendoli pagare a chi può permetterselo: ad esempio l’università e alcuni servizi sanitari cui le famiglie relativamente ricche potrebbero far fronte con assicurazioni private.
La produttività delle nostre imprese private, soprattutto nel settore manifatturiero, è simile a quella del resto d’Europa. Le imprese che sono uscite dal nanismo, crescendo o integrandosi in filiere di produzione, spesso sono più produttive di analoghe imprese francesi e tedesche. È nel settore pubblico e nei settori protetti dalla concorrenza che la produttività ristagna.
Un programma di governo che volesse far ricominciare a crescere la ricchezza, rendendo quindi possibile la redistribuzione, dovrebbe muoversi in questa direzione. Liberare le forze della concorrenza ripartendo dalla legge che il governo Renzi aveva approvato ma che il Parlamento aveva poi svuotato. Tener lontani dai ministeri quegli imprenditori incapaci che lì cercano favori o sussidi. E soprattutto eliminare un po’ di burocrazia: ma per farlo bisogna capire che la battaglia contro la burocrazia deve essere il fulcro dell’azione del governo e che per vincerla occorre esperienza dello Stato, non bastano i proclami. La burocrazia (come ha spiegato con grande chiarezza Angelo Panebianco sul Corriere di ieri) è più astuta e spesso più potente della politica. Sono i burocrati ad esempio la ragione principale per cui è tanto difficile liberalizzare l’economia: perché ogni regola richiede un burocrate che la amministri e le liberalizzazioni riducono il numero e soprattutto il potere dei burocrati. Per fare tutto ciò servirebbe rovesciare il ragionamento che i partiti (tutti i partiti) oggi propongono al Paese. Ripartire cioè dalle ricette per la crescita. Perché è l’unica strada affinché si possa parlare di redistribuzione. Tanto più che, come dimostrano le percentuali calanti degli italiani al voto, si vedono sempre meno acquirenti tra le bancarelle al mercato delle illusioni della politica.