dal Corriere della Sera
L’Istituto europeo ha optato per un graduale ampliamento del programma di acquisto di titoli in atto dallo scorso marzo. Lo scenario economico non giustifica scelte spregiudicate e i Paesi non devono confondere la flessibilità con l’autorizzazione a ravvi
Con la recente decisione del suo Consiglio direttivo, la Banca centrale europea, presieduta da Mario Draghi, ha optato per un graduale ampliamento del suo programma di acquisto di titoli in atto dallo scorso marzo. Proprio per la sua gradualità l’allargamento è stato accolto male sui mercati che si aspettavano di più (peraltro solo quelli europei, ieri Wall Street, galvanizzata dal numero dei posti di lavoro creati negli Stati Uniti, ha guadagnato il 2%).
In effetti le Borse chiedono praticamente la luna al governatore della Bce, e non da oggi. Auspicherebbero un ritorno ad una crescita più equilibrata che però dipende molto più dai governi (o da Bruxelles) che da Francoforte. Soprattutto si aspettano che se qualcosa non va per il verso giusto — se fallisce una grande banca, se c’è un attacco terroristico, se la Cina rallenta più velocemente del previsto — la banca centrale non faccia mancare un supporto permanente a banche e mercati finanziari, con interventi potenzialmente illimitati e senza una data di fine, dunque ben al di là della garanzia di liquidità di emergenza tipica delle banche centrali.
Nelle condizioni di oggi, però, il presidente della Bce non poteva che frustrare almeno parzialmente queste aspettative per tre solide ragioni. La prima è contingente. Le nuove previsioni su Pil e inflazione diffuse proprio dalla Bce non indicano rilevanti cambiamenti di scenario economico. La ripresa europea prosegue lentamente. Più lentamente di quanto sarebbe auspicabile, ma prosegue. E l’inflazione, oggi ancora vicina a zero, è prevista — più o meno come in passato — in ascesa all’uno per cento nel 2016 e all’1,6 per cento nel 2017.
Se dunque poco o nulla è cambiato nel quadro macro, sarebbe stato poco praticabile rivoluzionare un programma ancora in fase di attuazione che oltre tutto — come ha puntigliosamente ricordato Draghi nella conferenza stampa alla fine del consiglio — ha ridotto i tassi sui titoli di 140 punti e riportato in positivo la crescita del credito nell’eurozona.
C’è poi una seconda ragione più geopolitica, e cioè che i 25 membri del consiglio direttivo della Bce hanno deciso nella consapevolezza che le loro decisioni venivano prima di quelle dei banchieri centrali Usa che, tra un paio di settimane sotto la presidenza di Janet Yellen, dovranno decidere se aumentare il tasso di interesse di riferimento per i mercati finanziari
americani per la prima volta dal 2006. Un’accelerazione del programma di sostegno di acquisto dei titoli in Europa avrebbe accresciuto la divergenza delle politiche delle banche centrali tra i due lati dell’Oceano Atlantico e anche l’instabilità sui mercati valutari. Proprio la signora Yellen solo due mesi fa — sorprendendo tutti — rinviò il rialzo dei tassi Usa per non esacerbare le difficoltà dei Paesi emergenti e della Cina. La verità è che le interdipendenze tra le banche centrali accrescono la loro cautela nell’adottare decisioni che in passato avrebbero preso più a cuor leggero. E così arrivano le delusioni per i mercati che non hanno ancora imparato a capire queste interdipendenze.
Infine, dietro alla scelta della Bce si intravede anche una terza ragione di cautela. Un’estensione più consistente del programma (comunque possibile in futuro come ha ribadito ieri Draghi dagli Usa) sarebbe stata una forte apertura di credito e di garanzia a governi nazionali che solo ora hanno iniziato a sperimentare un certo recupero di flessibilità fiscale dopo anni di austerità. Quei governi che scambiassero la flessibilità con un ritorno alla spesa facile in deficit come scorciatoia per ravvivare la crescita anemica delle loro economie (per l’Italia si fermerà allo 0,7 per cento nel 2015, dice l’Istat) hanno ricevuto da Francoforte un messaggio forte e chiaro.