21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Franco

L’attacco frontale a Giovanni Tria lascia affiorare una miscela di impazienza e di arroganza, che vela un’insicurezza di fondo. Il timore di Di Maio non riguarda le possibili reazioni dell’Unione europea e dei mercati finanziari di fronte a una legge di bilancio gonfiata da spese in deficit


È lontano anni luce, il Luigi Di Maio che sfoggiava moderazione e dava rassicurazioni sui propri cromosomi europeisti. Peccato. In cento giorni al governo, il vicepremier e ministro del Movimento Cinque Stelle ha assunto con frequenza crescente i toni capricciosi di chi pretende di modellare la realtà sulle proprie promesse elettorali: anche se si tratta di impegni che fanno a pugni con la realtà dei conti economici. L’attacco frontale a Giovanni Tria lascia affiorare una miscela di impazienza e di arroganza, che vela un’insicurezza di fondo. Il timore di Di Maio non riguarda le possibili reazioni dell’Unione europea e dei mercati finanziari di fronte a una legge di bilancio gonfiata da spese in deficit.
L’unica preoccupazione sembra quella di difendersi dal suo Movimento: da quei settori che disapprovano il contratto con Matteo Salvini; che chiedono di battere cassa, costi quello che costi; e che mal digeriscono il «governismo» del prescelto di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. La metamorfosi ha dunque una spiegazione soprattutto interna alle dinamiche dei Cinque Stelle. Dopo avere contribuito in modo decisivo al successo del 4 marzo, è come se il vicepremier e l’intero vertice non avessero ancora chiarito a se stessi se quel risultato è stato frutto di un profilo ambiguamente moderato, o del solito estremismo. Eppure, Di Maio è stato «programmato» e indicato come leader per governare: non importa se con Lega o Pd.
Questo spiega la reazione scomposta che ebbe nelle ore decisive della formazione di un governo. Quando sembrò che il tentativo dovesse naufragare, non esitò a chiedere un lunare impeachment del Capo dello Stato, Sergio Mattarella: salvo poi rimangiarselo, sostenendo che Salvini «non è un cuor di leone» e dunque non c’erano i numeri per chiederlo. Ecco, l’attacco a Tria, la pretesa che il ministro dell’Economia «trovi i soldi» per dare credibilità alle promesse del M5S, somiglia a un secondo scivolone. La ragione, a ben vedere, rimane la stessa: la tensione tra Di Maio e una parte del suo Movimento; e dunque il tentativo affannoso di scaricare sul governo i problemi di un grillismo a due facce.
D’altronde, oggi per lui la situazione è peggiore che dopo il 4 marzo. Sebbene abbia quasi il doppio dei voti raccolti allora dalla Lega, nei sondaggi il M5S è considerato virtualmente superato. E soprattutto, l’agenda delle priorità finora è stata imposta da Salvini: almeno sul piano di una popolarità facile, costruita contro l’immigrazione. E più affiora il timore di un sorpasso a favore del Carroccio, più riemergono ombre di leadership alternativa a Di Maio, proiettate sulle Europee di maggio. Gli strappi nascono da questa sensazione di assedio che il vicepremier avverte, accentuando il suo nervosismo e togliendosi simbolicamente la grisaglia ministeriale, per tornare a parole e atteggiamenti che stonano con l’immagine costruita in precedenza.
Ma non si può attribuire la responsabilità solo a lui. Da quando è stato formato il primo governo dichiaratamente populista dell’Occidente europeo, M5S e Lega non hanno fatto che inseguirsi come se il loro «contratto» avesse come vero nucleo il prolungamento tacito della campagna elettorale. Entrambi giurano che la compagine mediata dal premier Giuseppe Conte durerà per l’intera legislatura. Eppure, sembrano i primi a non crederci. La fretta di mostrare risultati tangibili ai loro elettori, o di farli apparire tali, tradisce l’atteggiamento mentale di chi ritiene di avere poco e non molto tempo a disposizione.
Altrimenti, sceglierebbero una strategia quinquennale basata sul gradualismo, e su parole di verità al Paese. I consensi alti dicono che l’opinione pubblica non ha cambiato idea su di loro. M5S e Lega non hanno avversari in grado di insidiarli. Per questo, usare il ministro Tria come capro espiatorio delle proprie difficoltà è doppiamente suicida. Primo, il ministro dell’Economia è l’uomo-simbolo della credibilità italiana sui mercati finanziari. E lo sta diventando di più per l’aggressione politica che sta subendo. Colpirlo significherebbe indebolire, se non affondare il governo M5S-Lega.
Secondo, difficilmente un nuovo ministro potrebbe seguire una politica economica diversa, più «popolare» e lassista sui conti. Per rassicurare gli investitori, per paradosso si dovrebbe scegliere qualcuno ancora più determinato a scontentare le richieste di chi, nel Movimento, preme su Di Maio. Ormai dovrebbe essere chiaro che il cuore strategico e delicato del governo non è né a Palazzo Chigi, né nei ministeri dei vicepremier. Semmai, sorprende che Tria sia apparso un po’ solo, nonostante la stima che Conte dice di nutrire per lui. La protezione internazionale dell’Italia è affidata in prima linea alla sua politica economica. Non capirlo significa mettere a rischio gli equilibri creati faticosamente il 1° giugno scorso; e mostrarli più precari di quanto siano.

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