20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

Il presidente ha annunciato un referendum sulla pena di morte, che inibirebbe l’ingresso nella Ue. L’Unione deve essere meno arrendevole verso Ankara

Il dubbio sull’atteggiamento che Tayyip Erdogan avrebbe scelto dopo aver vinto per un soffio il referendum costituzionale, domenica sera, è durato pochissimo. Alla moltitudine osannante della «sua» Turchia, quella del 51,4 per cento, il presidente proclamato dittatore ha solennemente ribadito che al più presto si terrà una consultazione popolare sulla reintroduzione della pena di morte. Erdogan ha mostrato altre volte questa sua propensione: piuttosto che rimanere fermi a un risultato deludente, è meglio tornare appena possibile alle urne. E che il risultato del referendum costituzionale sia stato deludente per Erdogan, è fuor di dubbio. Quello che doveva essere un plebiscito è diventato un margine di voti minimo che spacca la Turchia in due. Malgrado una campagna elettorale asimmetrica e prevaricatrice che gli osservatori dell’Osce hanno condannato con parole dure: gli standard del Consiglio d’Europa non sono stati raggiunti, gli oppositori sono stati sistematicamente equiparati a terroristi, e come se non bastasse la decisione della commissione elettorale di considerare valide le schede prive di timbro ufficiale ha fortemente ridotto le garanzie contro i brogli. La politica è così, dobbiamo concedere a Erdogan il diritto a una vittoria amara. Ma cosa fa, l’uomo forte di Ankara, prima ancora di essere investito dei suoi nuovi e quasi assoluti poteri? Punta a vincere un altro referendum che questa volta dovrebbe essergli più favorevole.

Un referendum sul ritorno della pena di morte. Un referendum che, in caso di successo della proposta del Sultano, vieterebbe automaticamente l’adesione della Turchia alla Ue. Può darsi che Erdogan insista sul nuovo referendum per ragioni esclusivamente di politica interna, sapendo bene che le speranze di una adesione turca alla Ue sono ridotte al lumicino. Ma il segnale lanciato dal Super-Presidente a poche ore dal voto di domenica dovrebbe comunque far riflettere le capitali europee, soprattutto quelle che Erdogan ha tacciato di propensioni naziste e fasciste (ora preferisce prendersela con i «crociati», come i jihadisti) al solo scopo di mobilitare i suoi elettori nazionalisti. Offese e pena di morte, non è questa la Turchia cui l’Europa deve aprire le porte o che può scegliersi come garante ben retribuito del contenimento dei migranti. L’occasione delle «diverse velocità» europee, se le elezioni francesi non la vanificheranno e se nuove politiche nasceranno davvero nel segno di una avanguardia unitaria, deve trarre dai propositi di Erdogan le ragioni fondanti di una nuova e diversa strategia verso Ankara: meno arrendevole, meno vincolata da impegni presi (erroneamente) in condizioni del tutto diverse, e forse proprio per questo più reciprocamente utile.

Un cammino del genere non si percorre in un giorno, ed è comprensibile che l’Europa, per ora, resti alla finestra. Mentre il ministro degli Esteri austriaco reclamava ieri l’interruzione immediata dei negoziati di adesione (sin dall’inizio Vienna ha mal visto le trattative con Ankara, ma poi sui migranti ha dovuto adeguarsi all’emergenza del momento), a Berlino prevaleva una maggior cautela probabilmente condizionata dalla presenza in Germania di quattro milioni di turchi e dall’avvicinarsi delle elezioni di settembre. Ribadito l’ovvio, cioè che spetta ai cittadini turchi il diritto di scegliere il sistema costituzionale della Turchia, Angela Merkel ha preferito sottolineare le «grandi responsabilità» cui dovrà ora far fronte Erdogan per riconciliare il suo popolo profondamente diviso. Un appello che in forme diverse è stato lanciato da tutte le cancellerie occidentali, ma al quale il politico Erdogan è sempre stato, sin qui, poco sensibile.

E quanto alla Nato, è stato ancora il ministro degli Esteri tedesco Gabriel ad invocare prudenza, ricordando che la Turchia (che dispone oggi del secondo esercito dell’Alleanza dopo quello statunitense) non fu allontanata nemmeno ai tempi della dittatura militare, all’inizio degli Anni 80, perché prevaleva la volontà di non spingerla nelle braccia dell’Urss. Preoccupazione meno valida oggi che la Turchia rischia di ritrovarsi piuttosto nelle braccia dell’islamismo mediorientale, ma anche la Nato sembra essere disorientata, oltre che dalla necessità di coprire il suo fianco sudorientale, dalla nevrotica politica estera attuata da Erdogan negli ultimi anni. Prima complice dell’Isis per mezzo della porosità del confine con la Siria e dei traffici di petrolio, poi nemico giurato dell’Isis a seguito degli attentati islamisti e delle pressioni Usa. Prima sostenitore di Assad, poi suo implacabile avversario. Prima in freddo con la Russia fino al punto da abbattergli un cacciabombardiere, poi di nuovo amico di Putin dopo la caduta di Aleppo e ora in rapporti tesi con Mosca per l’approvazione data da Ankara ai cinquantanove Tomahawk sparati da Trump contro Assad. Prima in trattative di pace con i curdi, poi di nuovo in guerra con loro alla luce di ripetuti attentati e più ancora della insidiosa alleanza americana con i curdi siriani dell’Ypg. Prima pilastro dell’alleanza sunnita contro l’alawita Assad, poi amico della Russia e indirettamente dell’Iran che nella circostanza appoggiano la causa sciita. Erdogan non si pone molti problemi di coerenza, ma ha molte non sopite ambizioni di grandezza che rinviano all’impero Ottomano e con le quali l’Occidente, Nato in testa, non ha mai voluto fare davvero i conti.

Il post-referendum ci dirà se il momento di cambiare rotta è venuto. L’opposizione è uscita rinfrancata dalla prova delle urne, arriva a reclamarne l’annullamento per le irregolarità riscontrate anche dall’Osce, ma sarà Erdogan, che resta senza rivali al suo livello, a decidere se la Turchia vorrà dare davvero l’addio all’Occidente. La speranza è che ciò non accada. Ma se dovesse accadere, l’Occidente non dovrebbe voltarsi dall’altra parte come ha già fatto sin troppo spesso.

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