Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Diversamente da quanto accadde prima dell’incontro di Singapore, questa volta le due parti si sono ripetutamente parlate e hanno preparato il meeting
Che sia un incontro storico lo si è già detto a Singapore lo scorso giugno, in cambio di quasi niente. Ma ora che l’americano Donald Trump e il nord-coreano Kim Jong-un concedono il bis nell’amica e accogliente Hanoi (ironie della Storia) , dai loro sorrisi e dalle loro calorose strette di mano il mondo intero si aspetta qualcosa di più: l’archiviazione di uno scontro nucleare diventato credibile da quando Pyongyang sostiene di poter colpire il territorio metropolitano degli Usa; la rinuncia nord-coreana ai test atomici e missilistici per ora soltanto sospesi; il progressivo ammorbidimento della orrenda tirannide dei Kim anche se i diritti umani non figurano all’ordine del giorno; forse l’ok dell’America a un trattato di pace con la Corea del Nord, al posto dell’armistizio che dura dal ’53. Se soltanto la metà di questi traguardi fosse raggiunta con relative road map per garantire l’efficacia degli accordi, l’incontro di Hanoi diventerebbe un vero trionfo diplomatico e potremmo tornare a parlare, questa volta con fondamento, di evento storico. Ma proprio la Storia insegna che quando ci sono di mezzo i nord-coreani la prudenza non è mai troppa, e allora conviene ispezionare i due piatti della bilancia e stare di vedetta. Nelle vele dell’ottimismo soffiano due elementi non trascurabili, che rendono la vigilia assai diversa da quella che precedette Singapore.
Il primo elemento è che entrambe le parti hanno un forte interesse politico interno ad evitare un fallimento. Donald Trump aveva promesso agli americani una denuclearizzazione della Corea del Nord «completa, verificabile e irreversibile». Obiettivo non raggiungibile a colpi di pacche sulle spalle. Per la seconda puntata di Hanoi, allora, un presidente americano ormai impegnato nella campagna elettorale del 2020 ha dovuto ripiegare su formule meno ambiziose ma più realistiche, come lo stop definitivo ai test, il congelamento della produzione di missili e di testate, tabelle di marcia negoziali per tenere Pyongyang legata alle sue promesse. Agli elettori che non vanno troppo per il sottile ciò basterebbe, ed è questo quello che conta. Anche se il processo negoziale fosse ancora in corso nel novembre del prossimo anno. Quanto a Kim Jong -un, egli sa che i suoi militari amano poco questi abbracci con il nemico. Concessioni bisognerà farle per ottenere in cambio qualche parziale cancellazione di sanzioni economiche, ma la «garanzia» dell’arsenale nucleare non dovrà essere intaccata, almeno non subito. Vanno bene allora le road map, forse va bene anche la promessa di chiudere il sito nucleare di Yongbyon (a quanto pare ce ne sono altri) , più arduo sarà aprire le porte agli ispettori americani o comunque stranieri, ma tutto dipende da quanto Trump sarà disposto a concedere in garanzie geopolitiche e in aiuti economici dopo aver alleggerito le sanzioni. Le quali sanzioni, se restassero intatte, segnerebbero per Kim un fallimento pericoloso.
E poi, dopo gli interessi dei leader, c’è un secondo elemento che fa ben sperare. Diversamente da quanto accadde prima di Singapore, prima di Hanoi le due parti si sono ripetutamente parlate, hanno preparato il vertice non dando troppo retta al Trump che vuole fare tutto da solo (e così ha fatto anche con Putin a Helsinki). C’è da credere che se l’esperto segretario di Stato Mike Pompeo non avesse dato luce verde, Trump avrebbe pensato alle sue urne e non si sarebbe mosso. Le speranze esistono, dunque. Anche se gli ostacoli da superare, ora che Donald e Kim hanno già cenato insieme, sembrano ancora alti come montagne. Bisognerebbe intendersi, per cominciare, sul significato di «denuclearizzazione» della penisola coreana: per gli americani è (o era) quella completa e verificabile sopra citata, senza vie di mezzo; per i nord-coreani essa comprende invece la fine della «minaccia nucleare» proveniente dalla base di Guam, e devono sparire anche gli «ombrelli nucleari» degli Usa che proteggono la Corea del Sud e il Giappone. La fine dei test ha inoltre per gli americani un significato particolare. Nell’ottobre del 2017, quando Washington e Pyongyang cominciarono a parlarsi seriamente in un Paese neutrale dell’Europa (e il Corriere ne dette notizia), gli americani ritenevano che i nord-coreani fossero a un passo dalla messa a punto di un missile nucleare intercontinentale (Icbm) capace di colpire gli Usa. Per questo il dialogo si aprì, ma rimane il fatto che mancava quel «passo»: il rientro nell’atmosfera della testata balistica. Se il passo è ancora da compiere, fermare per sempre i test può servire agli Usa per lasciarsi un piccolo margine di sicurezza. Ma c’è un problema: i nord-coreani lo capiscono anche loro.
E ancora. I servizi americani e i loro satelliti affermano che dopo Singapore la Corea del Nord non ha ridotto il suo arsenale nucleare, al contrario. Il che confermerebbe la linea di Kim: se Trump non concede, e molto, noi ci teniamo la nostra polizza salvavita. Che serve anche a tenere buoni i militari e a salvare il regime, malgrado i suoi ottantamila prigionieri politici per colpe infinitesimali. Hanoi, a ben vedere, non ha nulla a che fare con Singapore. Oggi Donald Trump e Kim Jong-un, dopo i sorrisi, dovranno affrontarsi come due trapezisti armati e senza rete. Le loro evoluzioni riguarderanno anche noi, assetati di pace e di sicurezza ma confinati in una lontana e silenziosa Europa.