19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

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di Massimo Gaggi

Donald Trump fa colare a picco il Tpp, l’accordo di libero scambio Usa-Asia concepito da Obama come l’architrave economico e politico dei rapporti tra le due sponde del Pacifico. Intanto la Borsa americana continua a salire, con l’indice Dow Jones che supera la soglia dei 19 mila punti per la prima volta nella storia. Non c’è necessariamente una stretta correlazione tra i due fatti: le Borse avevano già dato per scontato l’abbandono del Trattato Trans-Pacifico negoziato dal presidente democratico ma contestato anche dal suo partito. L’annuncio di Donald Trump viene minimizzato dai fan dell’economia di mercato che ora inneggiano al leader populista appena eletto: quell’accordo era già stato denunciato da Trump durante la campagna elettorale e, comunque, non avrebbe avuto un rilevante impatto economico. Il pericolo sono barriere e dazi e di questi il tycoon non ha (per ora) parlato. Può darsi che, almeno nell’immediato, non ci sia da fasciarsi la testa per l’effetto Trump sull’economia. Anche chi giudica i suoi progetti su energia o deregulation deleteri per l’ambiente e per la stabilità del sistema finanziario ammette che a breve certe misure, o anche i semplici annunci, potrebbero dare una spinta al Pil. Ma, preoccupandosi solo di «riportare in America i posti di lavoro che ci hanno rubato», Trump invia un segnale devastante: un «ognuno per sé» che in Asia sta già facendo saltare gli equilibri geostrategici sui quali si è basata la politica estera Usa nel Dopoguerra.

La Cina ripropone la sua alleanza asiatica anti Tpp e Paesi filo-occidentali come Singapore, Malesia e Vietnam, furiosi per il tradimento di Washington, aprono a Pechino. Giappone e Corea del Sud, i due principali alleati Usa nell’area, sono nel panico. Il premier Abe si era precipitato giorni fa nella Trump Tower per cercare di ottenere garanzie dal neopresidente. E’ stato ricevuto da tutto il clan familiare, ha avuto un «bilaterale» anche con Ivanka, ma non deve avere ottenuto molto se ieri sera andava dicendo sconsolato che senza gli Stati Uniti il trattato di libero scambio non ha più senso.

Prima o poi toccherà anche all’Europa. Non nell’immediato: il Ttip, il trattato commerciale con la Ue, non ha mai visto la luce, quindi non c’è nulla da affondare. Ma un Continente che vive sempre sull’orlo della recessione dovrà affrontare contemporaneamente le pressioni protezioniste dell’America che rischiano di frenare l’export verso il più grande mercato del mondo e la richiesta di contribuire maggiormente alle spese per la Nato e la difesa comune. Facile prevedere che in un mondo sempre più instabile (a cominciare dal Medio Oriente e dal Nord Africa in fiamme) e con l’«ombrello» americano sempre più lacerato (se non, addirittura, chiuso) l’Italia e i suoi vicini dovranno fare e spendere molto di più per la difesa.

Quanto all’Asia e ai mercati, adesso c’è la tentazione di archiviare il Tpp come un accordo troppo complesso e burocratico, con troppi vincoli. È possibile che, negoziando accordi bilaterali, Washington, forte della vastità del suo mercato, riesca a strappare condizioni migliori. Così come è possibile che tornando a bruciare energia inquinante a basso costo venga data una momentanea spinta all’economia, anche a quelle delle regioni depresse degli Stati Uniti.

Ma, se è davvero questa la linea scelta dalla nuova Amministrazione, i prezzi da pagare nel lungo periodo saranno molto alti, e non solo in termini di «global warming». In Borsa, ad esempio, i valori bancari salgono perché gli investitori sperano con la «deregulation» che questi istituti tornino a scommettere di più su titoli ad alto rendimento, ma molto più rischiosi per la stabilità del sistema: tornerà inevitabilmente ad affacciarsi lo spettro della crisi del 2008. Salgono anche i titoli industriali. Molti considerano suggestiva l’idea di un mercato interno più forte e più protetto dalle importazioni asiatiche e messicane. Ma è pensabile davvero che si vada in questa direzione? Come si può ostacolare il commercio col Messico se nel 2020 il 20 per cento delle auto vendute dalle Case americane e più del 35 per cento della loro componentistica verrà da questo Paese?

Molti ricordano che negli anni 80 Ronald Reagan tentò di fare qualcosa di simile alzando barriere contro l’import di semiconduttori. Dovette desistere perché il blocco stava danneggiando in modo grave le aziende Usa dipendenti da quei componenti. Ma Reagan era un pragmatico, aveva una grande visione di politica estera e non viveva in un mondo spazzato da venti populisti. Con Trump rischia di essere tutta un’altra musica: lo stiamo già toccando con mano nel Sudest asiatico: dopo le Filippine, altri Paesi in «libera uscita». Per la Cina l’opportunità non solo di accrescere la sua forza economica e politica, ma di diventare anche il paradigma per un nuovo sistema di regole.

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