Il Presidente viene risucchiato a svolgere quel mestiere dal quale voleva disimpegnarsi. L’unica sfida che conta nel lungo termine è con la Cina. Per vincerla deve ricostruire le infrastrutture, i settori industriali smantellati dalle delocalizzazioni, deve riprendere la leadership nella ricerca e innovazione, riconquistare competitività
Dalla crisi ucraina all’uccisione del capo dell’Isis, Joe Biden ha raccolto qualche successo. Di fronte alle minacce di Vladimir Putin, e dopo una cacofonia iniziale tra occidentali, la Nato ha ritrovato unità e ha mandato segnali dissuasivi alla Russia. L’eliminazione in Siria di Hajji Abdullah che la Casa Bianca ha definito «il leader globale dell’Isis», è una vittoria per l’antiterrorismo americano. Finalmente Biden cancella il ricordo della débâcle afgana, la caotica evacuazione di Kabul che costò anche la vita a tredici dei suoi soldati? Gli ottimisti vedono un recupero di credibilità.
La giornalista russa Yulia Latynina della Novaya Gazeta è convinta che l’Occidente «ha smascherato il bluff di Putin» in Ucraina, mostrando una determinazione che il leader russo non si aspettava. Uno studioso americano di orientamento conservatore, Walter Russell Mead, solitamente critico verso Biden, osserva che «la Nato ne esce rafforzata e gli europei hanno la prova che Washington è un buon alleato». Biden sembra aver appreso qualcosa da Putin sulla guerra di propaganda; con i suoi continui annunci sui piani aggressivi di Mosca sta saggiando anche la tenuta degli alleati (non è chiaro infatti come la Nato reagirebbe a un attacco «non convenzionale» dei russi, una cyber-guerra paralizzante o un golpe a Kiev).
C’è un rovescio della medaglia. Biden viene risucchiato a svolgere quel mestiere di gendarme globale dal quale voleva disimpegnarsi. L’Ucraina è una crisi subìta, non voluta dall’America. Sono altri a dettargli l’agenda di politica estera. Biden è stato chiaro: non c’è un interesse vitale degli Stati Uniti a difendere Kiev, tantomeno un obbligo visto che nessun trattato di alleanza li unisce all’Ucraina. La Casa Bianca ha escluso una guerra con la Russia anche nel caso che Putin decida di lanciare l’attacco temuto. A riprova, Biden ha spostato solo tremila dei suoi soldati (un’inezia rispetto ai 170.000 che Putin tiene lungo quel confine) e li ha lasciati dentro il perimetro Nato, tra Paesi baltici, Polonia e Romania. Tant’è: il Pentagono ha ormai diversi consiglieri militari e addestratori in Ucraina, e fornisce armi made in Usa. Altre guerre (Vietnam) cominciarono con l’invio di «consiglieri militari e addestratori». Per quanto Biden sia determinato a non farsi coinvolgere direttamente in un eventuale conflitto armato, finora è sempre stato Putin a fare la prima mossa, Washington ha dovuto inseguirlo e reagire.
In quanto al blitz vittorioso contro l’Isis, serve anche a ricordare quanto l’impegno militare rimane dilatato: dal Sahel allo Yemen, i fronti aperti sono più numerosi di quanto si crede. La ritirata da Kabul — per quanto sfuggita di mano con esiti tragici — doveva realizzare un tassello della dottrina Biden, elaborata da una nuova generazione di strateghi democratici come il suo consigliere per la sicurezza nazionale, il 45enne Jake Sullivan. Qual è la sostanza di quella dottrina? Addio al sogno di rifare il mondo a propria immagine e somiglianza. Dopo l’11 settembre 2001 l’America ha dissipato vite umane, risorse economiche, nonché capitale politico e credibilità morale, in troppe guerre periferiche. L’unica sfida che conta nel lungo termine è con la Cina. Per vincerla, il nation building l’America deve farlo in casa propria: deve ricostruire le infrastrutture, i settori industriali smantellati dalle delocalizzazioni, deve riprendere la leadership nella ricerca e innovazione, riconquistare competitività. E anche risanare la propria democrazia malata.
La dottrina Biden richiede un ripensamento radicale delle priorità. Ma il mondo non gliene lascia il tempo. Gli alleati che si sentono trascurati si agitano. O peggio: nel caso della Germania sono attratti da scivolamenti geopolitici verso Oriente. Ridimensionare un impero in tempo di pace non è un’operazione facile né indolore: c’è sempre il rischio che il disimpegno sia frainteso da amici e nemici, che una ritirata strategica diventi una rotta disordinata come a Kabul. Le eredità di una lunga egemonia inseguono quest’America in ogni angolo del pianeta, il suo passato ipoteca il suo futuro. E una democrazia ha il problema del fronte interno: cosa e come spiegare agli elettori americani, allergici al globalismo di una volta. L’opinione pubblica domestica ha già dimenticato Kabul ma qualsiasi crisi internazionale nuova ha più probabilità di danneggiare Biden che di risollevarlo nei sondaggi.
Un beneficiario della «distrazione» ucraina è Xi Jinping. Ha accolto Putin ai Giochi invernali come l’ospite di riguardo. L’asse Pechino-Mosca si rafforza e può neutralizzare le sanzioni occidentali. La diplomazia cinese appoggia le rivendicazioni russe. Xi si allinea con Putin nel richiedere che la Nato rinunci a ogni futura espansione. Le due potenze hanno appena condotto manovre navali congiunte al largo del Giappone, un alleato americano. I sorvoli di cacciabombardieri cinesi sui cieli di Taiwan sono sempre più numerosi: l’Ucraina diventa un test per la futura annessione dell’isola alla Cina. Qualunque sia la tabella di marcia di Xi per estendere la sfera d’influenza cinese, ogni crisi che assorbe energie americane e distoglie l’attenzione di Washington da lui è benvenuta. È un’altra battuta d’arresto per quella dottrina Biden che voleva concentrarsi su una cosa, e farla bene. Nel secolo scorso il protagonista di un’altra ritirata imperiale, il premier britannico Harold McMillan, interrogato da un giornalista su quale fosse stato il più grave problema per il suo governo, gli rispose: «Gli eventi, mio caro, gli eventi».