30 Ottobre 2024
Maurizio Landini

Il segretario della Cgil: «Abbiamo milioni di lavoratori precari, in nero o part time involontario. Crescono ineguaglianze e povertà. C’è insomma una crisi democratica cui dare una risposta»

La Cgil ha raccolto le firme su quattro referendum per smantellare il Jobs act, già in parte demolito dalla Corte Costituzionale e che ha contribuito, dice Matteo Renzi, a creare più di un milione di posti di lavoro. Era proprio necessario?
«Sì, perché poniamo un tema di fondo: la libertà di essere delle persone, di non essere precari, di avere un lavoro tutelato e uno stipendio dignitoso. E di non morire sul lavoro, perché un referendum parla anche di questo, richiamando la responsabilità delle società appaltanti. E la risposta che abbiamo avuto è molto positiva: 4 milioni di firme in un Paese dove la metà degli elettori non vota più».

È un dato di fatto, però, che in Italia non ci sono stati mai tanti occupati e a tempo indeterminato. Come mai, secondo lei, se non è anche merito del Jobs act?
«Non bisogna fermarsi a quanti lavorano, ma vedere anche in quali condizioni e livelli salariali e prospettive lo fanno. Scopriamo allora che abbiamo 4,5 milioni di lavoratori part time, spesso involontari; 3 milioni a termine; 3 milioni in nero; un milione a chiamata; un milione di somministrati e 4-5 milioni di partite Iva o collaborazioni che non arrivano a 20-25mila euro all’anno. Una precarietà che colpisce in particolare giovani e donne. E crescono ineguaglianze e povertà. C’è insomma una crisi democratica cui dare una risposta».

Sta dicendo che in Italia non c’è democrazia?
«È evidente che c’è una crisi democratica. Se le elezioni europee fossero state un referendum, non sarebbero state valide, perché il 51% non ha votato, poiché non si sente rappresentato e osservo che quelli che non votano sono proprio quelli che stanno peggio».

Ora siete impegnati nella raccolta delle firme sul referendum abrogativo dell’autonomia differenziata. Perché un sindacato si mobilita su un tema apparentemente lontano dai suoi interessi?
«Lo Stato sociale è una conquista del mondo del lavoro. Anche qui c’è una questione di libertà: il diritto di tutte e di tutti di accedere alle cure e all’istruzione su tutto il territorio e di avere gli stessi diritti anche sul lavoro, cosa che viene messa in discussione dall’autonomia differenziata».

Secondo i suoi avversari, lei è impegnato nella costruzione del campo largo, con l’ambizione di guidarlo.
«Le solite sciocchezze che su di me si dicono da 15 anni. Il punto vero è ridare voce al lavoro come fattore centrale di sviluppo. La nostra è la battaglia di un sindacato confederale che ha 130 anni di storia e ha sempre fatto politica per affermare la libertà e la giustizia sociale dentro e fuori dai luoghi di lavoro».

Ora anche Renzi sembra interessato al campo largo. Ci si può fidare?
«Penso che nessuno debba ragionare in termini di tattica, perché siamo di fronte a contenuti di fondo: transizioni energetica e digitale, qualità e libertà nel lavoro».

Giorgia Meloni dice che con l’ammucchiata si possono anche vincere le elezioni ma poi non si governa.
«Inviterei Meloni a guardare alle divisioni nel suo governo e al calo dei consensi. Le nostre proposte hanno tutte un merito, per cambiare il modello sociale ed economico. Per noi la Costituzione va applicata, non stravolta come vuole fare il governo».

La premier ha fatto bene o male a non votare Ursula von der Leyen?
«Sicuramente ha indebolito nostro Paese, per di più in un momento in cui l’Italia è sotto procedura d’infrazione. Detto questo, alla nuova commissione Ue ribadiamo che va superata l’austerità e rimesso al centro il lavoro, mentre negli ultimi 15 anni le norme hanno privilegiato il mercato a scapito dei diritti. Abbiamo le nostre proposte per l’Europa e per l’Italia. Per esempio, in agricoltura, contro il caporalato, pensiamo che siano necessari indici di congruità tra estensione dei terreni, produzione e lavoratori impiegati».

Il presidente della Confindustria, Emanuele Orsini, dice che con i sindacati bisogna riaprire il confronto partendo dal Patto per la fabbrica del 2018.
«Nei prossimi giorni incontreremo Orsini. Credo che non serva parlare di patti, ma di accordi per applicarli, a cominciare dalla misurazione della rappresentanza e dal diritto dei lavoratori di eleggere i propri delegati e votare le piattaforme e gli accordi».

Lei parla di questione salariale, ma le categorie in realtà stanno rinnovando i contratti, con reciproca soddisfazione delle parti.
«Ci sono ancora più di tre milioni di dipendenti pubblici senza contratto e il governo ha stanziato solo un terzo delle risorse necessarie. Inoltre, passando al settore privato, vedo importanti contratti da rinnovare. Mi riferisco, tra gli altri, ai metalmeccanici, ai tessili, agli edili, ai chimici. Non si sta recuperando il potere d’acquisto mentre la riforma fiscale fatta dal governo colpisce salari e pensioni».

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