Fonte: Corriere della Sera
di Roberto Franco
Molti leghisti sono irritati e delusi dal via libera alle misure anti-povertà. Piccoli imprenditori, ma anche operai del Nord-ovest fanno presente che il contratto di governo è stato sottoscritto dopo, non prima del voto
Sembra che in privato il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, confessi di essere quasi geloso del rapporto umano e politico che a suo avviso unisce i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. È qualcosa che il contratto di governo ha in qualche modo saldato, ma che va oltre: come se il patto di potere stipulato dopo il 4 marzo fosse più forte dell’ostilità tra le forze che rappresentano, M5S e Lega. Li accomuna l’odio verso tutto ciò che odora di establishment: in Italia e in Europa. Hanno un debole entrambi per la Russia di Vladimir Putin: più esplicito e di lunga data nel capo leghista, meno elaborato e strategico in quello del Movimento Cinque Stelle.
Eppure, nel loro sodalizio politico si è insinuato un cuneo destinato a accrescere le tensioni: il reddito di cittadinanza. Salvini giura che «è sempre nel mio cuore. Non è una priorità della Lega ma c’è nel contratto di governo». E il premier Giuseppe Conte cerca di placare le accuse di «divanismo» contro il provvedimento, garantendo di volere fare il possibile per evitare che «questa misura esaurisca le sue finalità sul piano meramente assistenziale». Capolavoro lessicale, che però non mette il silenziatore ai malumori di un Nord e di un Centro Italia perplessi dai costi e dalla filosofia della creatura cara ai Cinque Stelle.
Sarà un caso, ma ogni volta che un leghista commenta il reddito di cittadinanza, lo fa con parole così liquidatorie da essere costretto a correggerle poche ore dopo. In Veneto, il governatore Luca Zaia non perde occasione per marcare le distanze dal M5S: si tratti di «decreto dignità» grillino o del reddito di cittadinanza, visto come un inno al parassitismo di chi non ha voglia di lavorare e come un incentivo al lavoro nero. «Da noi i 5 Stelle sono all’opposizione e ci restano», ha ribadito Zaia ieri, irritato per il freno alla Tav imposto dal M5S. Forse in certi giudizi si legge in filigrana anche un pregiudizio antimeridionale; e magari nostalgia per i tempi in cui il Carroccio era la «Lega Nord».
Ma perfino l’inventore del microcredito Muhammad Yunus, banchiere indiano e Premio Nobel, bolla il reddito di cittadinanza come «una specie di carità». E comunque, mentre la ruvidezza salviniana in tema di immigrazione viene salutata con soddisfazione, la sua ambigua approvazione della «manovra del popolo» del M5S semina preoccupazione. Per ora, Salvini può opporre ai mugugni i sondaggi. Il vicepremier e ministro dell’Interno gronda silenziosa gratitudine per un M5S che in pochi mesi gli ha permesso di passare dal 17 per cento delle elezioni a un 30 per cento e oltre dei consensi, sebbene virtuali. E di certo non si preoccupa quando il «sudista» Di Maio annuncia «una campagna nel Nord» per riprendersi voti emigrati in parte verso il Carroccio.
Il problema è che in una parte dell’elettorato leghista, l’accondiscendenza verso il reddito di cittadinanza provoca un’orticaria culturale. Piccoli imprenditori, ma anche operai del Nord-ovest fanno presente che il contratto di governo è stato sottoscritto dopo, non prima del voto. E chiedono a Salvini se pensa che avrebbe superato Forza Italia e ottenuto il 17 per cento, proponendo in anticipo al «suo» nord il contratto in quei termini. La stessa polemica quotidiana con la Commissione europea e le bordate a intermittenza contro la moneta unica riscuotono applausi d’ufficio delle frange più radicali. Ma vengono accolte come una follia dalle fasce produttive che sull’aggancio solido alle istituzioni di Bruxelles hanno fondato le loro attività.
Tanto più che l’ex premier Mario Monti, non smentito, ha ricordato come sia stato il sottosegretario leghista a Palazzo Chigi, Giancarlo Giorgetti, a battersi nel 2012 per introdurre il pareggio di bilancio nella Costituzione: un impegno meritorio, secondo Monti. Così, crescono la delusione e l’irritazione di una parte del leghismo. Il fatto che Di Maio sia costretto «a spiegarsi due volte al giorno» sui contenuti nebulosi del provvedimento-simbolo del M5S, è visto come la conferma di un pasticcio senza lieto fine; e costosissimo per i conti pubblici. E un Salvini obbligato a non mettersi di traverso per diplomazia contrattuale, alimenta la frustrazione.
Eppure, la «diarchia» Di Maio-Salvini difficilmente verrà scalfita, nel breve termine. Il leader dei Cinque stelle sa che, se cade il governo, sarebbe sostituito da figure come Alessandro Di Battista. E scommette che Salvini non romperà, per non perdere consensi e ritrovarsi alleato di ciò che resta del berlusconismo. La sua ascesa, spiegano a Palazzo Chigi, coincide con l’alleanza con il M5S: emanciparsene sarebbe un azzardo, come forzare la mano per il voto anticipato, se la situazione economica peggiorasse. In quel caso, i Cinque Stelle farebbero di tutto per evitare le urne. La diarchia, insomma, ingabbia entrambi. Rimane da capire chi dei due, alla fine, resterà ingabbiato anche dal reddito di cittadinanza.