L’Iran ha attaccato Israele nella notte tra sabato e domenica. L’appello degli Usa, l’interesse degli ayatollah, Bibi Netanyahu al bivio. Ma ora i due nemici potrebbero fermarsi
È stata la prima prova di forza che ha allargato la guerra a un confronto diretto tra Iran e Israele, con l’intervento cruciale dell’America. Ciascuna delle tre leadership ha «dimostrato» qualcosa alle sue constituency. Ora gli sforzi di Joe Biden puntano a fermare la spirale delle ritorsioni, la parola d’ordine è de-escalation. Ha una logica che potrebbe convincere Netanyahu e gli ayatollah.
L’Iran doveva replicare all’uccisione dei suoi capi militari in una sede diplomatica in Siria. I media occidentali tendono a concentrarsi su quella parte della società civile iraniana che è contraria al regime islamista, in particolare le donne che si ribellano all’oppressione. Gli ayatollah devono rispondere a un’altra parte della società persiana, fondamentalista e fanatica, antisemita e aggressiva. Nel regime clericale un’ala oltranzista incalza e accusa quelli che considera moderati. Teheran voleva indicare a Israele una «linea rossa» da non varcare. Lo ha fatto con una prova di forza, uno show della capacità distruttiva del suo vasto arsenale di missili e droni.
Un successo a metà. Da un lato la guida suprema Khamenei e i suoi militari non volevano infliggere danni umani eccessivi agli israeliani. La precisione con cui l’intelligence Usa ha preannunciato la data dell’attacco potrebbe essere stata propiziata da fughe di notizie telecomandate. Però Teheran ha subito due smacchi: l’efficacia dello scudo difensivo israeliano e l’intervento anglo-americano hanno minimizzato i danni. Ora l’Iran non ha interesse a un’escalation che potrebbe mettere in luce in modo ancora più evidente l’inferiorità delle sue tecnologie militari. Meglio tornare alla casella precedente: le «guerre per procura» condotte tramite Hamas, Hezbollah, Houthi, che da anni accerchiano di forze ostili sia Israele sia l’Arabia Saudita.
Nel lungo periodo l’obiettivo strategico rimane quello formulato dall’ayatollah Khomeini dopo la presa di potere nel 1979: distruggere Israele, abbattere la monarchia saudita, conquistare la Mecca. Da un punto di vista razionale l’appello di Biden alla de-escalation coincide con l’interesse iraniano; al tempo stesso la constituency fanatica del regime può essere delusa dai risultati modesti della pioggia di missili e droni. Poi c’è l’incognita della risposta israeliana.
Netanyahu è il primo destinatario degli appelli di Biden alla de-escalation. In linea di diritto a questo punto tocca a Israele colpire a sua volta l’Iran. È legittimo il principio per cui Israele non debba lasciare impunito l’attacco missilistico lanciato direttamente dall’Iran contro il proprio territorio. Il fatto che la pioggia di droni e missili sia stata in larga parte neutralizzata, il bilancio di danni limitato, non tolgono nulla alla gravità dell’aggressione. Però Biden cerca di far pesare il duplice aiuto militare fornito da Washington e Londra: prima l’intelligence, poi l’intercettazione e distruzione di una parte dei missili iraniani ad opera delle forze angloamericane.
Inoltre l’appello di Biden alla de-escalation parla all’opinione pubblica israeliana e ad altre componenti del governo. Le priorità per molti di loro rimangono la liberazione degli ostaggi e la distruzione di Hamas. L’Iran può aspettare. La buona prova fornita dai sistemi di difesa anti-missilistici è rassicurante. Tel Aviv può affermare di aver dimostrato che non teme un allargamento del conflitto a un fronte iraniano (oltre a quelli di Gaza, e contro gli Hezbollah in Siria e Libano); ma non ha interesse a ricercare questo allargamento. L’unica logica per proseguire a colpire l’Iran può essere un’altra: mandare avvertimenti contro le manovre dei Guardiani della Rivoluzione islamica che in questa fase inviano armi e munizioni ai palestinesi in Cisgiordania per aizzarli ad una rivolta armata.
Dei tre attori Biden è quello che ha il massimo interesse alla de-escalation. Con l’intervento della U.S. Navy e di altre risorse militari americane contro l’attacco iraniano, ha placato la componente dell’opinione pubblica americana che vuole difendere Israele. Ma il presidente è incalzato in casa sua dalla componente filo-palestinese: è sempre più forte, si fa sentire in campagna elettorale, preme perché l’America riduca gli aiuti a Israele e si concentri sulla tragedia umanitaria di Gaza.
Sull’Iran, Biden non si fa illusioni. Nel lungo termine l’antagonismo iraniano che perseguita l’America dal 1979 andrà risolto. Gli obiettivi di Teheran – eliminare Israele, soggiogare l’Arabia – esigono la cacciata degli Usa dal Medio Oriente. Per ora a Biden basta guadagnare sei mesi e mezzo, quanti ne mancano al voto.