19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Mieli

Ci sarebbe il tempo per trovare un’intesa ed evitare una sconfitta alle regionali ma non si tenta neppure di arrivare a un compromesso


Convincenti i dieci punti a favore del Mes che Nicola Zingaretti ha enunciato lunedì sulle colonne di questo giornale. Un manifesto assai efficace, ben scritto, ottimamente argomentato. Condivisibile, a parer nostro, dalla prima all’ultima parola. Spiace che i partner di governo abbiano lasciato cadere quel testo senza degnarlo nemmeno di qualche considerazione. Una scortesia non nuova nei confronti del segretario Pd, trattato con sufficienza dal M5S anche quando ha chiesto di riprendere in considerazione lo ius culturae o una radicale revisione dei decreti Salvini. Forse dipende dal fatto che, quando lancia le sue proposte, Zingaretti lascia trasparire di essere per così dire rassegnato a una mancata risposta dai seguaci di Vito Crimi.
Ma forse invece la proposta di Zingaretti non è stata accolta per la generale consapevolezza del fatto che in Parlamento non c’è una maggioranza favorevole alla richiesta del Mes. Sono orientati al sì il Pd, i seguaci di Matteo Renzi, quelli di Silvio Berlusconi e quelli di Emma Bonino, più qualcun altro in ordine sparso. Contrari, i partiti del precedente governo (e già loro sarebbero maggioranza) a cui si aggiungono Fratelli d’Italia e una quota non quantificabile della sinistra più radicale divisa tra il ministro Speranza all’apparenza filo Mes, Loredana De Petris schierata (come Conte) per il rinvio a settembre dell’eventuale richiesta e Stefano Fassina che ha definito il ricorso al Fondo salva Stati «inutilmente pericoloso», utile soltanto a «tirare a campare qualche mese».
Lo stesso Conte non si è mostrato propenso ad accelerare i tempi della pratica e ad un’impaziente Angela Merkel ha fatto capire che per l’Europa non ci sarebbe alcun giovamento se l’Italia sprofondasse in una crisi di governo per il solo gusto di andare a verificare in Parlamento se ci sono i numeri a favore del Mes. Così l’ha persuasa a non insistere e ad accontentarsi di un voto parlamentare a metà luglio pieno sì di buoni propositi ma senza alcun cenno al Mes. Si può dire che con la sua lettera Zingaretti ha certamente smosso le acque ma al dunque, in campo pentastellato, ha guadagnato soltanto il consenso di due parlamentari: Primo Di Nicola e Carlo Sibilia.
I Cinque Stelle stanno attraversando un momento troppo complicato perché si possa pensare che sia sufficiente una scossa elettrica per ottenere da loro un qualsiasi cambio di linea. D’altra parte i loro interlocutori non sono credibili se minacciano l’apertura di una crisi. Ragion per cui ogni monito («se non si fa questo o quello, faremo una brutta fine») appare come una provocazione a vuoto. Può sembrare cinico, ma l’unico campo in cui si possono raggiungere degli accomodamenti è quello delle spartizioni in Rai o delle nomine per gli enti pubblici. E anche quelli sono accordi faticosi.
Per ciò che attiene il resto della politica Pd e M5S danno mostra di essere poco esperti nell’esercizio dell’arte del compromesso. Prendiamo il caso delle elezioni regionali previste il 20 settembre, cioè tra meno di tre mesi. Ci sarebbe ancora il tempo per mettersi in condizione di evitare una sconfitta. Il centrodestra pur diviso al proprio interno — anche sul Mes, come è noto — questa intesa l’ha trovata. Pd e M5S, no. Voteranno sei regioni di una qualche importanza, quattro attualmente guidate dal centrosinistra, due dalla destra. Se finisse tre a tre, sarebbe un onorevole pareggio. Ma se — cosa sulla carta non impossibile — la destra ne vincesse quattro (strappandone due alla sinistra), sul piano nazionale la maggioranza di governo ne subirebbe contraccolpi. Ovvio che, anche per questa ragione, il Pd dovrebbe fare di tutto per prevalere dovunque sia possibile. E cosa fa? Si appella ai Cinque Stelle perché, in nome della lotta contro la destra, optino per il voto ai suoi candidati o, limitatamente alla Liguria, ne scelgano uno comune. Non gli passa neanche nell’anticamera del cervello che un compromesso così importante dovrebbe prevedere un piano più ambizioso, con un’eventuale «compensazione» per i partner di governo. Un compromesso di alto livello, appunto. Ed essendo troppo tardi per trovare qualche esponente dei Cinque Stelle adatto a correre (e vincere) in una regione, l’unico patto al momento ipotizzabile sarebbe quello di impegnarsi con i grillini per il voto a qualche loro sindaco nelle città in cui si voterà l’anno prossimo.
Lo storico Marco Revelli, voce assai autorevole della sinistra più radicale, ha esplicitato (sul Fatto) questa tesi: sarebbe «opportuno», a suo avviso, che il Pd prendesse in considerazione la conferma a Torino di Chiara Appendino e a Roma quella di Virginia Raggi. Quantomeno una delle due. Tutto sommato, Appendino e Raggi non sembrano a Revelli peggiori di tante altre persone alle quali la sinistra è stata e sarà costretta a dare il proprio voto. Non credo, ha aggiunto lo storico, «che i profili personali di Appendino e Raggi siano di per sé un ostacolo», tanto più che una buona fetta della sinistra italiana le ha già votate nei ballottaggi di qualche anno fa. D’altronde Pd e M5S «hanno già fatto un triplo salto mortale carpiato accordandosi sulla presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte». E allora? Le forze di maggioranza, conclude Revelli, dovrebbero immediatamente muoversi in questa direzione e lo farebbero se non fossero paralizzate dalla «mancanza di coraggio» e dalla «profonda pigrizia mentale».
L’idea di Revelli appare audace. Molto audace. Forse troppo per una sinistra, come è quella italiana, insicura e incerta sulla propria identità. In ogni caso, sia questa o meno la strada da battere, è giunto il momento in cui non già il solo Zingaretti ma l’intero gruppo dirigente del Pd deve scegliere se quella con i Cinque Stelle è o no un’alleanza strategica. Se opta per il no può continuare a procedere a tentoni mettendo però nel conto l’eventualità che a fine autunno (forse anche prima) l’attuale fragilissimo equilibrio politico salti per aria e si corra dritti ad elezioni in primavera. Nel caso opti per il sì, i dirigenti del Pd dovrebbero dar prova di audacia tenendo a mente che il partito di Togliatti e Berlinguer seppe far compromessi più o meno storici con Giulio Andreotti (1976) e financo con Pietro Badoglio (1944). Adesso toccherebbe a Zingaretti, proveniente dalla scuola di Togliatti e Berlinguer, prendere delle decisioni che pure appaiono meno impegnative di quelle dei suoi predecessori. Ovviamente non saremmo sicuri che il popolo di Zingaretti accetterebbe senza batter ciglio l’indicazione a favore di un secondo mandato per le sindache di Roma e Torino. Ma se, come il segretario non si stanca di ripetere, è giunta l’ora di dare all’unione tra il suo partito e il M5S una prospettiva di lungo respiro, non ci si può limitare ad esortare i grillini al voto per i propri esponenti.
Se non vuole seguire le indicazioni di Revelli, può accettarne la sensata filosofia e rimettere in discussione tutti i candidati per le regionali di settembre, sedendosi a un tavolo con i leader del M5S, di Italia viva, di +Europa, di Leu e di chiunque voglia sconfiggere il fronte avversario. Forse non troveranno un accordo ma l’esser stati seduti a quel tavolo sarà per loro un’esperienza rigenerativa. Che renderà poi superflui gli appelli all’unità.

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