Il divario tra le Regioni è scandaloso, anche dove già oggi esistono i livelli essenziali delle prestazioni
L’autonomia differenziata continua a infiammare il confronto politico. Abbondano però molte valutazioni generiche e fumose. Si trascurano ad esempio tre dati di fatto da cui dovrebbe partire ogni discussione. Primo, la Costituzione prevede che le Regioni possano gestire in prima persona vari settori rilevanti per la vita dei cittadini. Secondo, la concessione dell’autonomia è subordinata alla definizione per via legislativa dei cosiddetti «livelli essenziali delle prestazioni» (Lep), per garantire uniformità territoriale. Terzo, il divario fra Regioni è oggi scandaloso. E, quel che è peggio, lo è anche in quegli ambiti (come la sanità) ove già esistono i livelli essenziali. Qualcosa, evidentemente, non funziona. La (ri)definizione dei Lep è una occasione preziosa non solo per cambiare i rapporti fra Regioni e fra queste e lo Stato, ma soprattutto per migliorare davvero la disponibilità e la qualità delle prestazioni ai cittadini.
Per uscire dal vago e procedere in questa direzione, è opportuno guardare all’Europa. A Bruxelles è in corso da tempo un dibattito poco conosciuto in Italia, che riguarda proprio la fissazione di standard uniformi e la riduzione delle divergenze fra Paesi. La Ue costituisce un laboratorio ideale in quanto può permettersi di decidere ex novo, senza l’ingombro di una cornice legislativa pre-esistente.
Sabino Cassese — che presiede il Comitato Tecnico sui Lep — ha osservato che il vigente quadro italiano è un coacervo quasi inestricabile di previsioni normative, interpretazioni giurisprudenziali, vuoti di disciplina, indicazioni implicite. Una «terra incognita» e paludosa, su cui è molto difficile costruire. Per identificare gli standard, la Ue è partita dal fondo, per così dire: ossia dagli esiti effettivi delle politiche (ad esempio i livelli di povertà o i risultati scolastici) piuttosto che dalle spese o le norme di legge. Ogni anno la Commissione misura i divari, individua le situazioni critiche e raccomanda misure di correzione. Non sorprende che per l’anno in corso l’Italia sia stata giudicata deviante in ambiti cruciali come le competenze digitali, la povertà infantile, la copertura dei nidi, la quota di giovani che non studiano e non lavorano (Neet), l’inserimento lavorativo delle persone vulnerabili, la formazione. Nessuno ne ha parlato: un peccato, perché la bocciatura Ue solleva interrogativi centrali anche per la questione Lep.
La divergenza italiana è dovuta solo ai divari regionali interni, che abbassano la media? Oppure mancano (sono inadeguati o inapplicati) i livelli essenziali? Perché in alcuni contesti i cittadini non fruiscono di prestazioni che pure ci sono (il caso dei Neet)? La fumosità del confronto politico italiano è anche dovuta a ignoranza empirica. Per superarla, sarebbe utile pubblicare ogni anno un rapporto comparativo sulle prestazioni regionali, sottoponendo a valutazione approfondita le situazioni di ritardo e criticità. Secondo la Commissione Ue, i deficit di performance dipendono principalmente da questi fattori: la scarsità di offerta (ad esempio, pochi nidi), i costi troppo elevati per gli utenti, gli ostacoli anche pratici all’accesso (inclusa l’assenza di informazioni), la bassa qualità. Ogni aspetto andrebbe misurato, monitorato e valutato.
Ridurre la questione Lep alla enumerazione di un certo ventaglio di prestazioni «obbligatorie» non è certo sufficiente per migliorare le cose: il caso della sanità lo conferma in modo lampante. Il vero nodo della questione Lep è la qualità. È su questo terreno che si gioca il successo di ogni riforma. Il concetto ha tante sfaccettature. Ci sono però alcuni fattori che hanno un impatto ovvio e trasversale, qualunque sia l’ambito d’intervento. Fra questi, spicca la buona gestione. Che non vuol dire solo rispetto delle norme, ma soprattutto disporre di personale adeguato e preparato, di una organizzazione flessibile e in grado di aggiornare e rafforzare le competenze dei propri operatori. E gli standard di buona gestione devono essere vagliati periodicamente tramite esercizi ispettivi interni ed esterni, capaci di cogliere i punti deboli, imputare responsabilità e proporre soluzioni.
La sfida della qualità è al centro dell’agenda in molti Paesi. Il percorso più diffuso è questo: si definisce una cornice di indicatori di qualità e poi li si applica a un campione volontario di Regioni o Comuni. Chi fa meglio riceve una sorta di «bollino blu», che aiuta gli utenti e responsabilizza politici e amministratori. Non è necessario partire da zero. La Ue mette già a disposizione un proprio Quadro per la valutazione dei servizi di interesse generale. È troppo chiedere che la questione dei Lep e più in generale del federalismo fiscale venga affrontata partendo da qualità ed efficacia, invece che da una semplice razionalizzazione della «terra incognita» esistente? Si tratta di aprire un cantiere, con tempi lunghi: di avviare un processo, come ha suggerito Sabino Cassese. Ma ricordiamo che la garanzia di livelli essenziali e omogenei è il cuore della cittadinanza. Non riduciamola a un tiro alla fune finanziario tra Nord e Sud, tra presidenti e sindaci di diverso colore politico. Approfittiamone invece per stimolare un salto di qualità dello Stato e delle Regioni (tutte), realizzando così le promesse della Costituzione.