Il disallineamento tra domanda e offerta potrebbe addirittura compromettere la ripresa economica. Tocca innanzitutto alle agenzie territoriali e ai Centri per l’impiego muoversi
Arrivano pressoché ogni giorno conferme di come il mismatch, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, possa addirittura compromettere il buon andamento della ripresa economica in atto. L’ultima indagine è targata Censis-Confcooperative e segue di poco un analogo lavoro di Anpal-Unioncamere e una serie di resoconti giornalistici dai territori del Nord che hanno avuto come denominatore comune la denuncia della difficoltà da parte delle imprese di trovare i profili professionali necessari per allargare la loro pianta organica.
Questi riscontri dovrebbero, in prima battuta, portare a superare una fase del dibattito molto divisiva e che aveva avuto come leitmotiv una sostanziale incredulità. Come se gli imprenditori del Nord che lamentavano il cosiddetto shortage di manodopera lo facessero in nome di un’astratta battaglia culturale contro il reddito di cittadinanza. Non è così. E chi sosteneva questa tesi conosce poco le imprese del triangolo industriale Varese-Bologna-Treviso affatto interessate, per loro natura, a condurre «guerre di religione» e invece assai concentrate «sul pezzo». In virtù di questi equivoci si è creata una divisione artificiosa che può essere sintetizzata in questo modo: è di sinistra opporsi ai licenziamenti e reclamare il salario minimo, è di destra invece sottolineare che le imprese non trovano le persone che vogliono assumere. Eppure i saldi dell’occupazione sono la somma algebrica di ingressi e uscite e stavolta davvero uno vale uno. Le figure professionali che non si trovano sono svariate e vanno — secondo le indagini di cui sopra — dai fonditori, saldatori, lattonieri, calderai ai tecnici informatici e della logistica fino ai fisici e ai chimici e, dulcis in fundo, agli ingegneri.
Messe da parte le sterili polemiche occorre però evitare un’altra insidia: rimandare il mismatch alle storiche storture e deficienze del mercato del lavoro italiano e all’incomunicabilità tra scuola e imprese. E trarne come conseguenza che un’inversione di tendenza è possibile solo sui tempi lunghi. Riforme che ridiano concretezza e pragmatismo servono di sicuro, ma c’è bisogno in tempi brevi di quei profili professionali e non si può rimandare il felice incontro tra domanda e offerta a una prospettiva di medio periodo.
Una successiva illusione va affrontata: non c’è nessun provvedimento «centrale» che possa risolvere il problema senza essere preceduto da una ampia sperimentazione a livello dei singoli territori, infatti solo nella dimensione micro si può tentare di governare l’azione dei vari soggetti. Si deve partire dai fabbisogni delle aziende e dalla descrizione delle figure professionali necessarie. Tocca alle agenzie territoriali e ai Centri per l’impiego muoversi. È necessario selezionare un gruppo di candidati e costruire intorno a loro un programma di formazione per metterli in grado di entrare in azienda (magari appoggiandosi alle rete degli Its). Serve poco tempo per costruire un modulo formativo e a quel punto rientrano in gioco le imprese che pescano in queste scuole e si impegnano a dare la formazione specializzata dell’ultimo miglio. Non è la fine del mondo. Ma un processo facilmente gestibile. Che richiede quattro mesi e può essere largamente replicabile nei territori limitrofi. Qualcosa del genere sta accadendo a Milano a cura dell’Afol ma può facilmente ripetersi in parallelo — basta volerlo — in molti Centri per l’impiego almeno del Nord. Perché c’è così poca attenzione su questi percorsi e invece si utilizza il lavoro solo per sterili battaglie politiche?