A un anno dalla strage in Israele il conflitto sembra sfuggito di mano.
Però ora l’Iran è in difficoltàChi avrebbe detto che un anno dopo la strage del 7 ottobre saremmo precipitati fino a questo punto? Il conflitto in Medio Oriente sembra sfuggito di mano a tutti i protagonisti: Israele, l’Iran con la sua galassia di organizzazioni terroristiche, l’America. Ieri c’è stato il grave attentato a Jaffa, e 181 missili dall’Iran su Israele. L’impressione di una spirale infernale, in cui ciascuno restituisce colpi all’impazzata senza calcolarne le conseguenze, deve però essere seguita da un bilancio più preciso. Tutto può ancora cambiare cento volte, ma oggi in difficoltà è soprattutto l’Iran. Quando il regime degli ayatollah diede via libera a Hamas per la carneficina di civili ebrei e la presa di ostaggi, di sicuro non voleva arrivare dodici mesi dopo al punto in cui si trova oggi. Ha visto decapitare le propaggini armate di Hezbollah e Hamas con cui terrorizza e ricatta il Medio Oriente da decenni. La sua credibilità è ridotta al punto che l’Iran oggi può apparire come una «tigre di carta», visto che anche la seconda ondata di attacchi missilistici contro Israele è stata neutralizzata, come già accadde ad aprile.
Sul terreno politico, il conflitto in Medio Oriente è entrato in una fase nuova e sta prendendo una piega sorprendente. Si parla di escalation, allargamento della guerra, dimenticando che da dodici mesi in realtà c’è una grande assenza in questo conflitto: nessun Paese arabo si è lasciato coinvolgere; se non, occasionalmente, per aiutare Israele a intercettare missili iraniani, e per mandare aiuti umanitari a Gaza. È un’assenza clamorosa che dà la misura del fallimento iraniano. Buona parte del mondo arabo esulta per il colpo che le forze armate israeliane hanno sferrato a Hezbollah. E non si tratta solo delle leadership arabe, ma anche della popolazione.
Cito un osservatore esperto e del tutto ostile a Netanyahu, Thomas Friedman del New York Times: «È difficile rendersi conto di quanto Hezbollah e il suo leader Hassan Nasrallah, ucciso in un raid israeliano venerdì, siano detestati in Libano e in molte parti del mondo arabo, sunnita o cristiano, per il modo in cui avevano preso in ostaggio il Libano e lo avevano trasformato in una base per l’imperialismo iraniano». Friedman cita una studiosa dei social media arabi. «Descrive lo tsunami di messaggi dal Libano e da tutto il mondo arabo: festeggiano la caduta di Hezbollah».
Altra sorpresa: la tenuta degli accordi di Abramo, con cui nel 2020 Israele fu riconosciuto da Emirati arabi uniti, Bahrain, poi anche Marocco e Sudan. Ai margini dell’assemblea generale Onu a New York ho incontrato uno dei massimi esponenti degli Emirati. Sentirlo parlare degli accordi di Abramo e dei rapporti con Israele è istruttivo, dà un’idea di quel che accade realmente nel mondo arabo. La leadership degli Emirati sottolinea che i rapporti con Israele vanno a gonfie vele. Cita il fatto che la compagnia aerea Emirates, è diventata la principale linea di collegamento tra Israele e il resto del mondo, anche nelle fasi più pericolose del conflitto. Cita anche i dati sull’interscambio commerciale fra Emirati e Israele, in costante crescita. Interrogati se esista un limite «militare», una linea rossa nelle azioni delle forze armate israeliane, varcata la quale potrebbero rivedere i rapporti e rescindere gli accordi di Abramo, i vertici degli Emirati fanno scena muta: è un’ipotesi che non prendono neppure in considerazione. Nonostante siano molto critici verso Netanyahu e appoggino la creazione di uno Stato palestinese, l’asse con Tel Aviv non si tocca. L’Arabia saudita è più defilata — non è ancora pronta a riconoscere Israele — ma su un punto è in sintonia coi suoi vicini: la minaccia esistenziale in Medio Oriente è l’Iran; se Israele riesce a indebolire «l’asse della resistenza» (Hamas Hezbollah Houthi) filo-iraniano, è un bene.
La tenuta degli accordi di Abramo può essere liquidata da osservatori europei con l’argomento che i «biechi interessi commerciali degli sceicchi» prevalgono sulla questione umanitaria e il tragico destino del popolo palestinese. Ma gli interessi commerciali non sono biechi. Ben venga la priorità data al progresso economico da Dubai, Doha, Riad. Da quando queste potenze del Golfo hanno voltato le spalle al fanatismo religioso e si sono convertite alla modernizzazione laica, hanno accumulato ricchezze non solo a vantaggio di ristrette oligarchie. Hanno creato un benessere reale, hanno offerto un futuro positivo ai propri Paesi. Se i palestinesi si fossero affidati a dei leader un po’ più simili alle nuove classi dirigenti emiratine o saudite, oggi non vivrebbero questa spaventosa tragedia. I fiumi di denaro che l’Occidente ha fatto arrivare a Gaza sono stati investiti da Hamas in armi: potevano avere una destinazione diversa e la storia avrebbe preso un altro corso. Demonizzare il capitalismo è un alibi disonesto che le oligarchie clericali iraniane usano per esprimere il loro ribrezzo morale verso l’Occidente. La loro alternativa: corruzione, repressione, miseria di massa.
Nel 1973 la guerra dello Yom Kippur aveva colto Israele impreparato, come il 7 ottobre 2023. Sembrò all’inizio una vittoria araba, soprattutto quando l’Opec mise in ginocchio gli alleati occidentali di Israele con l’embargo petrolifero. In realtà cominciò allora a maturare nelle classi dirigenti di Egitto e Giordania la consapevolezza che non avrebbero mai sconfitto Israele militarmente. Da lì nacquero, alcuni anni dopo, i primi accordi di pace. Se l’Iran aprisse finalmente gli occhi sul vicolo cieco in cui si è cacciato, dalla tragedia odierna forse potrebbe estrarre le lezioni giuste.