Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Sarebbe prudente tornare su quel che fu deciso nell’estate 2019 irrobustendo il futuro sistema elettorale con qualche iniezione ricostituente di maggioritario
Siamo ancora in tempo. M5S e Pd hanno a disposizione qualche settimana per tornare sulla decisione presa nel settembre 2019 di sostituire l’attuale sistema elettorale con uno proporzionale «puro» (accompagnato da uno sbarramento al 5%). All’epoca i due partiti che si accingevano a mettere al mondo il Conte II erano terrorizzati dall’ipotesi che la situazione potesse sfuggir loro di mano e in eventuali elezioni anticipate la destra potesse stravincere. Relegandoli di conseguenza all’opposizione nella prossima legislatura (e forse non solo in quella). Ancor più la loro ansia è cresciuta dopo il taglio dei parlamentari. Così, contraddicendo impegni dalla forte connotazione identitaria presi negli anni precedenti, incoraggiati oltretutto da alcune sentenze della Corte costituzionale, optarono in un battibaleno per un nuovo sistema di calcolo delle schede. Un sistema che avrebbe dovuto impedire la vittoria di chi (partito o coalizione) non abbia ottenuto più del 50% dei voti. E che, di conseguenza, avrebbe lasciato intatta per i partiti la facoltà di cimentarsi con le più svariate e fantasiose alchimie parlamentari. Come è accaduto in occasione del varo di entrambi i governi dell’attuale legislatura presieduti da Giuseppe Conte. Ma adesso che lo spavento è passato, ora che il centrodestra è diviso non meno del centrosinistra e ha meno vento nelle vele, sarebbe forse il caso che i partiti di maggioranza tornassero su quella scelta. Per almeno tre motivi.
In primo luogo perché con il cambio di sistema prospettato si getterebbe a mare una provvidenziale esperienza iniziata nei primi anni Novanta che ha consentito all’Italia di adeguarsi alla consuetudine di tutti i Paesi di democrazia matura: quella di determinare nelle urne gli assetti di governo lasciando agli elettori financo la possibilità di «indicare» il futuro presidente del Consiglio. Ciò che ha reso possibile, per oltre quindici anni, la virtuosa alternanza tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi.
In secondo luogo perché — come dimostra quel che è accaduto nell’attuale legislatura (di più: dal 2011 in poi, cioè per un decennio) — anche un sistema moderatamente maggioritario non impedisce al Parlamento di prendere decisioni fantasiose. In altre parole, un sistema in cui siano state inserite dosi minime di maggioritario costringerebbe i partiti a decidere prima del voto le future coalizioni ma non priverebbe il Parlamento e il capo dello Stato di alcune importanti prerogative. Nonché della libertà di scorreria che da tali prerogative è consentita.
In terzo luogo perché — come è reso manifesto dall’attuale ma anche dalla precedente esperienza governativa di Giuseppe Conte — un presidente del Consiglio e una coalizione di governo che non abbiano ricevuto alcun mandato dalle schede elettorali mostrano all’atto pratico un’intrinseca debolezza. A prescindere dalla qualità del loro operato. Per quanto alto possa essere il loro «gradimento» nei sondaggi d’opinione, allorché si trovano davanti ad un ostacolo politico risulta evidente la loro fragilità. Ciò che rende incerti e contraddittori i loro passi.
La pandemia e alcune decisioni ardimentose — come quella di decretare a marzo il lockdown (per primi nell’emisfero occidentale) — possono aver prodotto l’illusione che in tempi come questi sia una fortuna avere un governo che non ha dovuto e forse non dovrà mai fare i conti con gli elettori. Ma poi le esitazioni e gli inciampi governativi di ottobre, che hanno riportato l’Italia in vetta alle classifiche per contagi e per morti, sono state la prova del fatto che una leadership non può fare a meno all’infinito della forza di una legittimazione proveniente da un corpo elettorale. Anche un’emergenza non può essere gestita più che tanto da una compagine priva di un qualche «voto di fiducia» quantomeno indiretto che provenga «anche» dagli elettori. Stesso discorso vale per i 209 miliardi che dovrebbero giungerci dall’Europa e in particolare, come è ovvio, per ciò che concerne l’allocazione di questa montagna di soldi. In presenza di una crisi pandemica destinata a durare e in assenza di una legittimazione elettorale, solo un Parlamento pressoché unanime sarebbe in grado di prendere decisioni all’altezza dei tempi. Altrimenti saremo costretti ad assistere ogni giorno di più al fisiologico tira e molla di questi giorni.
E allora? Per una stranezza del destino, a fine dicembre sono stati messi definitivamente a punto i nuovi collegi elettorali, operazione resasi necessaria dopo il referendum sul taglio dei parlamentari. Adesso teoricamente sarebbe possibile andare alle urne. Sconsigliabile ma possibile. Il prossimo semestre, però, sarà l’ultimo per un voto con il vecchio sistema parzialmente maggioritario. Apparentemente questo dovrebbe scoraggiare partiti grandi e piccoli dalla tentazione di percorrere sentieri che costringano a camminare sospesi sul baratro delle elezioni. Tutti dovrebbero essere spaventati dalla sola ipotesi di una crisi di governo. Ma la prospettiva di un’ultima occasione — in primavera, quando la forza del virus sarà presumibilmente minore — di un’estrema opportunità di andare al voto un’ultima volta con un sistema parzialmente maggioritario, potrebbe indurre alcune forze politiche, grandi e piccole, ad essere tentate dal correre il rischio di cui sopra. Questo perché l’antico sistema costringe per sua natura ad apparentamenti altrimenti improponibili. Sarebbe più prudente perciò spegnere queste tentazioni di voto tornando su quel che fu deciso nella tarda estate 2019 irrobustendo il futuro sistema elettorale con qualche iniezione ricostituente di maggioritario. Finché si è in tempo.