Fonte: Corriere della Sera
di Aldo Cazzullo
Ci sono categorie diverse che hanno una cosa in comune: il loro lavoro ha molto a che fare con la nostra vita. Con la cultura, con la socialità. I loro spazi sono luoghi di incontro. Scaldano le nostre anime
Il 18 maggio riapriranno i negozi. Ma quanti non potranno riaprire? E quanti sono destinati a chiudere nei prossimi, difficili tempi, se non facciamo qualcosa? Molte attività erano già in crisi prima della pandemia. Il «distanziamento sociale» non è cominciato con il Covid-19. La rete aveva già reso desuete o sporadiche cose che per le generazioni precedenti erano le più belle. Andare al cinema e a teatro, scegliere un romanzo nella libreria vicino a casa, curiosare tra le novità di una bottega. In questi tre mesi di chiusura, con la prospettiva di una riapertura cauta e spaventata, quasi tutti i commercianti hanno perso reddito e stock (quante merci deperibili o quanti vestiti resteranno invenduti?). E molti italiani, anche quelli più refrattari, si sono abituati a fare le loro spese on line.
Senza demonizzare l’e-commerce, senza sospettare che buona parte degli introiti finiscano nei paradisi fiscali, è evidente che c’è una differenza tra cliccare in rete e spendere sotto casa soldi che in qualche modo resteranno nella comunità: sotto forma di tasse, di affitti, di stipendi. Dietro il piccolo commercio c’è un mondo, e ci sono famiglie: oltre al negoziante, c’è il grossista, il rappresentante, il camionista, il commesso. E il proprietario del locale, che non è un bieco rentier, ma quasi sempre un risparmiatore che ha investito nella speranza di garantirsi un piccolo reddito, anch’esso ora andato in fumo. Lo stesso discorso vale per le librerie indipendenti, già in difficoltà di fronte alle catene, alla grande distribuzione, ad Amazon. Vale per gli edicolanti, che con i farmacisti e le cassiere dei supermarket hanno fatto sforzi straordinari in questi mesi drammatici. Per gli esercenti di cinema e teatri, e per tutti i lavoratori dell’industria dello spettacolo (si pensi ai concerti), che hanno di fronte un’estate terribile di inattività forzata.
Parliamo ovviamente di categorie diverse. Ma hanno una cosa in comune: il loro lavoro ha molto a che fare con la nostra vita. Con la cultura, con la socialità. I loro spazi sono luoghi di incontro. Scaldano le nostre anime. A maggior ragione in un Paese come l’Italia, dove è una fortuna essere nati sia per la ricchezza culturale, sia per il calore dei rapporti interpersonali. Se perdiamo questi lavori, questi luoghi, non perdiamo soltanto un’importante quota di prodotto interno lordo. Perdiamo una parte di noi stessi. Per questo noi per primi dobbiamo fare tutto il possibile per salvarli. E devono farlo le Regioni, il governo, l’Europa.
Sul Corriere Pierluigi Battista ha proposto già all’inizio della crisi un Fondo o un Prestito nazionale per la cultura: un’idea che ha dato via a una discussione ampia e proficua. Si tratta ora di passare ai fatti. E di estenderli a tutte le attività che abbiano un rilievo pubblico e sociale e siano particolarmente esposte ai danni provocati dalla pandemia. Gli strumenti finanziari non mancano, e accanto ai prestiti a tassi zero dovranno prevedere anche aiuti a fondo perduto.
L’obiezione potrebbe essere che la platea da aiutare è in teoria troppo ampia. Le associazioni di categoria, che fanno il loro mestiere, già lanciano l’allarme e prevedono la chiusura di un quinto dei bar e dei ristoranti; che in effetti dovranno reggere al crollo del turismo. Ma le dinamiche economiche internazionali ci insegnano che il settore del food è meno colpito di altri dalla rivoluzione digitale. Semmai esiste in Italia un rischio specifico. La ristorazione, dal locale stellato al forno di quartiere, è spesso ancora in mano alle famiglie. A Londra e a New York è in mano alle catene, direttamente o in franchising. Vogliamo anche noi mangiare e bere le stesse cose dappertutto? Ci rassegneremo all’omologazione del gusto, alla dittatura del precotto e del surgelato? Anche qui c’è una specificità italiana da tutelare, anche questo è un fatto di cultura.
Non possiamo sapere oggi se tutto tornerà come prima, né se nulla sarà come prima. Il decreto della presidenza del Consiglio, a una prima lettura, è stato interpretato come un’estensione del lock-down. Ma potrebbe anche rivelarsi un modo prudente di ricominciare. Riaprono quasi tutte le aziende più importanti (molte non si sono mai fermate). E dire agli italiani che possono andare a trovare la mamma, e pure «i congiunti», significa di fatto riconsegnarli alla vita sociale, sia pure con le dovute precauzioni. Ma se ci ritroveremo in un paesaggio di serrande abbassate – stavolta per sempre –, di cinema sbarrati, di teatri trasformati in sale bingo, di librerie riconvertite in «compro oro», allora sarà una vita materialmente e anche spiritualmente più povera.