Ci sono ancora due ostacoli per arrivare a un esercito europeo. E la politica preferisce non affrontarli
Quando le classi politiche giudicano irrisolvibile un problema lo nascondono sotto il tappeto. È convinzione generale che l’indebolimento relativo della potenza americana, i nuovi rapporti fra Stati Uniti e Europa, il guanto di sfida lanciato contro le società occidentali dalle potenze autoritarie, obblighino l’Europa ad occuparsi seriamente della propria sicurezza. Il che richiede uno strappo, un salto di qualità. Non essendo più scontata la protezione americana l’Europa deve (dovrebbe) dotarsi di un sistema di difesa autonomo. Quanto meno deve (dovrebbe) dare vita nei prossimi anni alla «gamba europea» della Nato. Con poche eccezioni (una eccezione è l’ottimo editoriale di Maurizio Ferrera, Corriere del 12 gennaio), i più evitano di affrontare i nodi politici senza sciogliere i quali nessuna difesa europea può nascere o diventare operativa. È corretto discutere delle risorse finanziarie da investire nella difesa e su come reperirle. È ineccepibile l’auspicio che si affermi un maggiore coordinamento fra gli eserciti europei. È inattaccabile l’idea che occorra incentivare l’integrazione nel settore della produzione di armamenti nonché l’accentramento e la razionalizzazione delle spese militari.
Tutto giusto. Però resta inevasa una domanda: è pensabile che possa nascere una difesa europea senza alcuni, cruciali cambiamenti politici? I problemi sotto il tappeto in materia di difesa europea sono due e, al momento, appaiono irrisolvibili. Ma se non li si affronta, quelle sulla difesa europea rischiano di restare discussioni inconcludenti.
Il primo problema da risolvere consiste nell’identificazione del potenziale nemico o dei potenziali nemici. Il secondo problema consiste nella identificazione del decisore: chi decide se e come usare la forza in presenza di una minaccia alla sicurezza dell’Europa?
Nessuno è disposto a pagare, a fare sacrifici, per una difesa europea concepita in astratto. Nessuno è disposto a dissanguarsi per mettere in piedi un sistema di difesa che, un domani, chissà, dovessero saltar fuori dei nemici, potrebbe risultare utile. Non funziona così. Si paga per mettere in piedi un costoso sistema di difesa se si è convinti che esso possa proteggerci da un pericolo concreto, da minacce incombenti. Identificabili con tanto di nomi e cognomi. Nelle condizioni attuali, la difesa europea, non essendo più scontata la protezione americana, dovrebbe servire per dissuadere la Federazione russa dal lanciarsi, dopo l’Ucraina, in altre avventure militari in Europa. Se non che, investire sulla sicurezza militare in chiave anti-russa è una operazione che si scontra contro un potente ostacolo. Le opinioni pubbliche europee (come ha rilevato Ferrera) sono divise: una parte considera la Russia un pericolo per l’Europa e un’altra parte no. Ci sono membri dell’Unione (Ungheria, Slovacchia) che operano apertamente come quinte colonne di Putin entro l’Unione. E ci sono movimenti politici filo-russi in Francia, Germania, Italia, Austria e altrove. Di sicuro, questi Stati e queste forze cercherebbero di impedire che prenda forma una difesa europea intesa come strumento dissuasivo nei confronti della Russia.Pertanto, non ci può essere difesa europea se non si riescono a convincere le opinioni pubbliche della serietà della minaccia russa. E se, inoltre, non si accompagnano gentilmente alla porta le quinte colonne o, quanto meno, se non si riesce a escluderle dai processi decisionali in materia di difesa e sicurezza. Ciò servirebbe anche come un monito per gli elettorati europei. Il messaggio sarebbe: nel pieno rispetto della democrazia, cari elettori europei, avete il sacrosanto diritto di mandare al governo del vostro Paese chi vi pare. Ma l’Europa, a sua volta, ha il diritto di tutelarsi contro le quinte colonne del potenziale nemico.
Basta solo enunciare il problema per capire l’irrealizzabilità del proposito. Per cui: niente comune identificazione del nemico potenziale, niente difesa europea.
Anche il secondo problema è un macigno che impedisce di dare vita alla difesa comune.
È la celebre formula del giurista tedesco Carl Schmitt: sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. Chi sarebbe, in una situazione di emergenza, di minaccia all’Europa, il decisore? Chi avrebbe il potere di decidere quando e come impiegare la forza militare per difendere l’Europa da un eventuale pericolo? Davvero qualcuno pensa che una tale decisione possa essere contrattata fra 27 Paesi (più gli altri che si aggiungeranno), ciascuno dotato di potere di veto? Senza un decisore la difesa dell’Europa non può diventare un «bene pubblico», ossia un bene posto a tutela di tutti i membri dell’Unione. Ciascuno Stato si orienterebbe diversamente a seconda di quanto si senta minacciato. La Polonia, ad esempio, è molto più sensibile alla minaccia russa di quanto lo sia il Portogallo. E se, poniamo, domani, la minaccia per l’Europa avesse origine nel vicino Oriente (per esempio, in Libia) l’Italia si sentirebbe assai più esposta al pericolo della Danimarca. Senza un decisore con l’autorità di tutelare la sicurezza dell’Europa ovunque si presenti la minaccia, non può essere attivata alcuna difesa europea.
La verità è che è difficile sbarazzarsi di certe idee ricevute dal passato anche quando abbiano dimostrato di non funzionare. Così come un tempo si pensò che l’unificazione monetaria avrebbe obbligato l’Europa a fare il salto verso l’unità politica, qualcuno sembra oggi pensare che basti la volontà di risolvere i problemi tecnici che ostacolano la difesa comune perché il suddetto salto segua in automatico. Ci si sbagliava allora, ci si sbaglia oggi.
Non c’è nulla di automatico. Al momento l’Europa non sembra in grado di innescare un processo di riforma che consenta di generare la necessaria autorità decisionale. I nodi politici della difesa europea restano sotto il tappeto.