27 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

 

di Geraldo Villanacci

Pur dovendo riconoscere, al netto di ipocrisie opportunistiche, che non si tratta propriamente di una riforma storica, sarebbe un errore sottovalutarne l’incidenza poiché comunque siamo chiamati a decidere sulle sorti del Parlamento ovvero l’istituzione centrale del Paese


Una delle più regressive e al contempo sottovalutate conseguenze accentuate dell’emergenza sanitaria, è l’evidente graduale affermarsi di una nuova dimensione di idealismo soggettivo nel quale il solipsismo sociale induce molti di noi a farsi attraversare dal tempo piuttosto che attraversarlo. Ma, soprattutto, ad abbandonare la strada della solidarietà nonostante la storia, anche quella recente, documenti che l’individualismo è incompatibile con lo sviluppo armonico tra persona e società, quale presupposto essenziale di una comunità vitale.
Che piaccia o meno, in questa atmosfera apotropaica siamo giunti a poche settimane dal referendum costituzionale del 20-21 settembre prossimo.Pur dovendo riconoscere, al netto di ipocrisie opportunistiche, che non si tratta propriamente di una riforma storica, sarebbe un errore sottovalutarne l’incidenza poiché comunque siamo chiamati a decidere sulle sorti del Parlamento ovvero l’istituzione centrale del Paese. Eppure, il labile dibattito di questi giorni sembra piuttosto incentrato sui cambiamenti di opinione di partiti e esponenti politici, piuttosto che sulla questione centrale rappresentata dalle problematiche che potrebbero essere determinate dalla ennesima riforma parziale.
A fronte del tutt’altro che secondario risparmio conseguente alla riduzione dei parlamentari, argomentazione che non si intende sottovalutare, i precedenti in tema di riforme incompiute sono purtroppo numerosi ed emblematici. Si consideri che al momento dell’entrata in vigore della Costituzione nel 1948, gli articoli 56 e 57 non indicavano un numero massimo di parlamentari. L’unica previsione era l’elezione di un deputato ogni ottantamila abitanti, mentre alle Regioni era assegnato un Senatore ogni duecentomila abitanti con un minimo di sei Senatori per ognuna di esse. Inutile nascondere che la disposizione ha prodotto effetti distorsivi alterando il rapporto tra eletti e numero di abitanti (in Molise due Senatori per 302 mila abitanti, mentre in Basilicata sette Senatori per 558 mila abitanti).
Non solo; per mitigare il forte contrasto nel dibattito alla Costituente relativo alla differenziazione delle due Camere, si giunse ad una sintesi volta a caratterizzare il Senato quale espressione delle istanze regionalistiche. Una prospettiva che in realtà non è stata mai attuata benché siano stati successivamente introdotti dei correttivi nei sistemi elettorali adottati a partire dal 2005. Anche per quanto riguarda i Senatori a vita di nomina del Presidente dalla Repubblica, in difetto di una chiara leggibilità della norma molti problemi interpretativi della stessa sono ancora irrisolti. Per esempio vi sono stati casi di nomine di Senatori a vita nonostante ve ne fossero già cinque in carica (così è avvenuto con il Presidente Pertini che nominò, in aggiunta ai cinque presenti, Carlo Bo e Norberto Bobbio; interpretazione seguita anche dal successore Presidente Cossiga).
A ciò si aggiunga che le ormai abitualmente esigue maggioranze in Senato, conferiscono molta rilevanza ai voti dei Senatori a vita che, infatti, sono risultati spesso determinanti. Una palese alterazione dell’equilibrio parlamentare poiché piuttosto che svolgere il ruolo di alta influenza attraverso la partecipazione al dibattito, alcuni parlamentari non eletti, anche se di indubbia autorevolezza, possono condizionare il confronto fra schieramenti politici.
L’idea che si possa sviluppare dopo l’approvazione definitiva della riforma, un dialogo dinamico volto a coniugare la riduzione della rappresentanza parlamentare con le altre irrinunciabili prerogative di un ordinamento democratico, per quanto espressa in buona fede, è una vera illusione. Molto più realistico è che in difetto di un più compiuto progetto di revisione, ci si possa ritrovare in una situazione analoga a quella conseguente all’ultima riforma del 2001 quando, costretti a ridimensionare per ragioni di compromesso le originarie rilevanti aspirazioni riformiste, si puntò a rafforzare il sistema di governo e l’autonomia delle Regioni. Un processo di stabilizzazione del rapporto tra Stato e Regioni che nonostante i numerosi interventi interpretativi della Corte Costituzionale, come è comprovato dalla cronaca di questi giorni, non è mai stato effettivamente possibile attuare.

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