27 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

È il momento di compiere un passo decisivo. Se si riuscirà a formare una coalizione italo-tedesca-francese-britannica-forse spagnola capace di avere una unica linea politica e di tenere in riserva un coordinato e credibile dispositivo militare, l’Europa riuscirà a ottenere risultati e conterà di più nel mondo


Propensa da sempre a oscillare tra velleitarismi autolesionisti e dolorose battute d’arresto come quella infertaci ieri dal non più «nostro» Fayez al-Sarraj, la politica estera italiana è chiamata a fare sulla Libia quel che raramente le è riuscito dopo la fine della Guerra fredda, che con la sua disciplina di blocco proteggeva gli esitanti. Ovvero: selezionare incontri e conversazioni subordinandoli a una linea politica chiara da sostenere con la necessaria coerenza, abbandonare le frasi fatte che si vanno rivelando perdenti («non esiste una soluzione militare») e sostituirle con iniziative concrete, creare il più ampio consenso interno possibile (poveri noi) per cercare di proiettare credibilità all’esterno, predisporre azioni anche militari nel caso si rendessero necessarie. In una parola dare all’Italia il peso che non ha. La Libia, non solo oggi ma negli ultimi nove anni, è un esempio di quel che non bisogna fare. Ci siamo appiattiti sui non infallibili mediatori dell’Onu e poi sul governo tripolino di Sarraj. Rifiutandogli però le armi per difendersi quando ce le ha chieste. Abbiamo poi scoperto che era bene dialogare anche con Haftar, e per dimostrare ai francesi che anche noi eravamo capaci di farlo abbiamo convocato una inutile conferenza di Palermo (supplicando Haftar di venire e vantandoci di un appoggio americano inesistente) . Abbiamo senza accorgercene costruito un vuoto politico che fatalmente qualcuno avrebbe riempito, e ci siamo fatti prendere in contropiede dalle iniziative sul terreno della Russia e della Turchia. Fare peggio era difficile, ma è inutile dare la caccia a questo o a quel governo perché il dopoguerra che seguì l’abbattimento di Gheddafi nel 2011 di governi ne comprende parecchi, più o meno (soprattutto meno) competenti. Come tentare di rimediare, allora? Cosa fare per non perdere la Libia, e in particolare la Tripolitania dove sono i nostri interessi?
La prima parola da evocare viene accolta di solito con insofferenza, tanto i nostri politici la sfruttano e la denigrano quando conviene: Europa. Sappiamo che l’Europa non ha una politica estera comune, se non altro perché non è uno Stato ma una unione di Stati nazionali diversi e con i propri interessi. Inoltre, soltanto da quando Trump è alla Casa Bianca l’Europa ha visto moltiplicarsi i dissensi transatlantici e si è resa conto di aver bisogno di una autonomia strategica e geopolitica. La quale non è facile da costruire velocemente, anche perché esiste una cultura, o una memoria europea, che parla di guerre continue tra cui i due conflitti mondiali, di massacri e di trincee insanguinate più che ovunque nel mondo. L’Europa non deve ascoltare i bellicisti d’occasione, deve anzi essere fiera della sua propensione diplomatica e «soft» nelle crisi internazionali. E deve essere fiera del suo modello sociale, in brutte acque ma tuttora migliore di qualunque altro. E tuttavia, una strategia è giusta quando si è capaci anche di porle un limite.
In Libia e sulla Libia, l’Europa deve compiere un passo comunque decisivo. Se riuscirà a formare una coalizione italo-tedesca-francese-britannica-forse spagnola capace di avere una unica linea politica e di tenere in riserva un coordinato e credibile dispositivo militare, riuscirà a ottenere risultati e conterà di più nel mondo. E se gli altri soci europei protestano, pazienza: spesso sono stati loro a non interessarsi alla Libia o a quel che giungeva dalla Libia, migranti per primi. Se invece i grandi Paesi europei non ce la faranno a collaborare, se prevarranno divisioni e gelosie, si delineerà un futuro di declino che sarà esaltato dal dominio tecnologico, politico e militare di Usa, Cina e Russia. La Libia diventa arbitro del futuro europeo.
Se la scommessa dell’unità funzionasse, e serve verificarlo molto velocemente, ci sarebbe poi sulla nostra strada un secondo test: la conferenza di Berlino, prevista in linea di principio per fine mese ma assente, si direbbe, nei girotondi che investono i palazzi della nostra politica. Lì, per la prima volta e con grande ritardo, dovrebbero incontrarsi i veri protagonisti della crisi libica, quelli che fanno o alimentano la guerra civile per procura in atto dal 2014. Il condizionale è d’obbligo, perché la Russia teme che Berlino possa disturbare i suoi piani di controllo almeno di metà della Libia. Domani la cancelliera Merkel dovrebbe recarsi a incontrare Putin (ecco l’esempio di un appuntamento che serve) : l’agenda è nutrita, ma non credetele perché parleranno quasi soltanto di Libia e della conferenza berlinese. E anche l’Italia può fare qualcosa per non farla morire, questa conferenza: per esempio interessarsene, soprattutto dopo che Putin e Erdogan, ieri l’altro, hanno ipocritamente chiesto un cessate il fuoco da domani. In attesa, forse, che gli europei si muovano anche loro.
Non è probabile che la Russia vada oltre l’invio dei mercenari della «Wagner», e che Erdogan vada oltre la spedizione di milizie turcomanne e siriane. Quanto basta per occupare lo spazio lasciato vuoto dagli europei (mentre gli Usa continuano a guardare altrove) e per mettere il Kalashnikov sul tavolo quando e se si aprirà un processo negoziale. Va loro detto subito, e con i fatti, che gli europei non sono profeti disarmati. Che gli scenari di intervento sono tutti ardui ma esistono. E che l’Italia, in particolare, dovrebbe già averne in mente uno. Le forze di Haftar affermano di aver preso Sirte, anche se i combattimenti continuano. E se andassero oltre, se puntassero alla decisiva Misurata dove noi abbiamo un ospedale e la sua protezione, circa quattrocento uomini e donne? Resteremmo con le mani in mano? Se no, bisogna dirlo prima, e intervenire davvero se necessario perché nulla è peggio della retorica militaresca.
Per ora, va detto, si tratta di una ipotesi. Le priorità sono creare una coesa avanguardia politico-militare europea (e bisogna spiegarlo alle opinioni pubbliche nazionali) e poi puntare alla conferenza di Berlino o ad analoga iniziativa. Per evitare che la guerra di procura in Libia diventi anti-europea e soprattutto anti-italiana.

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