22 Novembre 2024

Biden è troppo ottimista, quando dice che i sistemi liberali si rafforzano nel mondo e quelli autoritari si indeboliscono: la tendenza non è così chiara, la Storia non è finita

«Abbiamo rovesciato la tendenza, possiamo dire con orgoglio che oggi le democrazie si rafforzano nel mondo, le autocrazie si indeboliscono». Questo è stato il verdetto di Joe Biden al Summit for Democracy, il secondo di questi vertici che ha organizzato da quando è presidente. L’ottimismo del presidente americano è legato alla sorprendente resistenza dell’Ucraina contro l’aggressione russa, e alla coesione dell’Occidente anch’essa superiore alle aspettative. Le ragioni per celebrare però si fermano qui.
Non tutti concordano con Biden sul fatto che il vento della storia stia di nuovo soffiando in favore delle democrazie, come all’inizio degli anni Novanta dopo la caduta del Muro di Berlino. Al Summit for Democracy due membri della Nato — Ungheria e Turchia — non erano invitati, per i dubbi che li circondano. Tra le maggiori democrazie che partecipavano al vertice (per lo più in remoto) alcune sono accusate di tendenze autoritarie, di destra o di sinistra: India e Messico sono casi importanti. In India un leader dell’opposizione, Rahul Gandhi, è stato condannato per aver diffamato il premier Narendra Modi dandogli del ladro, ed è stato espulso dal Parlamento. In Messico il presidente socialista cerca di manomettere i controlli sulla regolarità delle elezioni. Una culla storica della democrazia, la Francia, ha un presidente che usa i suoi poteri costituzionali per riformare le pensioni senza una maggioranza parlamentare, e una parte dell’opinione pubblica si sente autorizzata a usare la violenza contro quello che considera un colpo di mano. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha mandato un videomessaggio al Summit for Democracy. Israele è un altro Stato di diritto descritto come sull’orlo di una involuzione autoritaria. Il summit è stato l’occasione per un duro scambio — a distanza — tra Biden e Netanyahu.
Qualche volta la situazione ci sembra drammatica perché enfatizziamo gli agguati alla democrazia, e non esultiamo abbastanza quando i pericoli vengono sventati. Il fatto che Netanyahu abbia dovuto piegarsi di fronte alle proteste contro la sua riforma giudiziaria, è un segnale di vitalità della società civile israeliana e della sua democrazia. Nel terribile 6 gennaio 2021 a Washington, gran parte dell’establishment repubblicano fece quadrato attorno alle istituzioni, convalidando la vittoria di un presidente democratico. Il goffo tentativo dei bolsonaristi di fare il bis in Brasile non è andato meglio. Fa notizia l’assalto contro la democrazia ma quando viene respinto vuol dire che i suoi anticorpi sono più forti. La più antica di tutte, quella americana, resiste dal 1787 nonostante una guerra civile, una Grande Depressione, due conflitti mondiali, la questione razziale. In quell’arco di tempo sono crollati regimi autoritari in Russia, Cina, Giappone, Germania, Italia, Spagna e altrove.
Resta che il verdetto ottimista di Biden è controverso. Il Democracy Index stilato ogni anno dall’Economist Intelligence Unit dava i sistemi politici liberali in «precipitoso declino» nel 2021 e in «stagnazione» nel 2022. Un’altra misurazione della Freedom House, su libertà e diritti umani, è più severa: secondo questa ong le democrazie regrediscono da 17 anni consecutivi. Non aiuta il fatto che l’Africa è tornata ad essere il teatro di colpi di Stato militari.
Sullo stato della democrazia nel mondo pesa l’anomalia cinese. Sotto la guida di Xi Jinping la Repubblica Popolare ha chiuso quei pur limitatissimi spazi di libertà del dissenso che sembravano tollerati da alcuni suoi predecessori. La gestione della pandemia è stata all’insegna dell’autoritarismo. Però quando la popolazione ha dimostrato che non ne poteva più, il regime ha mollato la presa senza che questo provocasse un boom di contagi e un’ecatombe. La Cina continua a smentire le previsioni occidentali che la vedono sempre sull’orlo di qualche baratro. La nuova guerra fredda finora ha intaccato solo in parte la sua forza economica. Molti esperti occidentali prevedono lo scoppio della bolla immobiliare cinese ma a saltare per prime sono state due banche americane e una svizzera. Pechino sorprende perfino sul piano dell’innovazione: Biden e il Congresso di Washington discutono una messa al bando di TikTok, dietro c’è il fatto che 150 milioni di americani sono stati conquistati da una app «made in China». L’appoggio di Xi all’aggressione russa in Ucraina è un grave errore, però è funzionale a dirottare risorse militari americane verso l’Europa, distogliendole dall’Indo-Pacifico e da Taiwan. Infine la Repubblica Popolare aumenta il suo ruolo di «banchiere dei poveri», si avvia a diventare la prestatrice di ultima istanza per tante nazioni emergenti, sfidando il ruolo del Fondo monetario e della Banca mondiale. Non è una creditrice benevola, le condizioni dei suoi prestiti sono opache, esose; però ha il pregio di esserci.
La diagnosi sulla democrazia deve fare i conti con la sua esportabilità nel Grande Sud globale. Lì la Cina continua ad avanzare anche perché riesce a interpretare con disinvoltura tanti ruoli contradditori. È una superpotenza conquistatrice che estrae risorse altrui. È anche capace di costruire infrastrutture e industrializza Paesi meno sviluppati. È la seconda economia mondiale ma continua a usare il linguaggio terzomondista presentandosi come l’amica dei poveri. Contro di noi maneggia la propaganda che ci descrive come gli unici portatori del Dna dell’imperialismo; tanti occidentali concordano, paralizzati dai sensi di colpa. In questo scenario ci sta pure un ruolo per la Divisione Wagner che continua a espandersi in Africa, dove vende sicurezza agli autocrati locali. Il continente nero a volte sembra rivivere la prima guerra fredda, quando una generazione di dittatori locali appresero a sfruttare le rivalità tra Usa e Urss. Bisogna augurarsi che il risultato non sia lo stesso di allora: le opportunità di sviluppo sprecate, i conti in Svizzera traboccanti per gli autocrati. Poiché il baricentro della crescita demografica mondiale si sposta verso l’Africa, è impossibile parlare di ripresa delle democrazie se quel continente non è coinvolto.
La gara tra sistemi politici liberali e regimi autoritari assomiglia più a una maratona che ai cento metri. È possibile, forse probabile, che alla fine confermi la previsione di Francis Fukuyama sulla «fine della storia»: il sistema che fonde liberaldemocrazia ed economia di mercato è il più avanzato. Quei pochi cinesi che hanno potuto scegliere — i cittadini di Taiwan, quelli di Hong Kong nella breve stagione di semi-democrazia — non hanno avuto dubbi. In Europa e in America talvolta s’incontrano opinioni pubbliche più scettiche, élite che eccitano la faziosità, misurano il tasso di democrazia a seconda se vincono loro. Un limite della narrazione di Biden lo si percepisce nel suo Paese: per molti americani il pericolo per la democrazia non viene né da Putin né da Xi, ma dal vicino di casa che vota e la pensa diversamente.

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