Il partito non sembra per ora intenzionato a liberarsi del male oscuro che già da prima della sua nascita divora i suoi leader. Una vocazione al cannibalismo mai superata
È possibile che quella del Partito democratico sia una storia finita? Non per il risultato elettorale in sé, che pure ha consegnato al centrodestra egemonizzato da Giorgia Meloni una vittoria indiscutibile e solida, nonostante i conflitti con gli alleati. Il 19 per cento appena raggranellato dal Pd è comunque secondo solo all’avanzata di Fratelli d’Italia, è superiore ai Cinque stelle che avevano dominato quattro anni fa, è ben più del doppio del Terzo polo e da solo supera abbondantemente Lega e Forza Italia messi insieme. Tranne che a Roma, è in testa nelle grandi città e l’affluenza, 63,9 per cento, è stata così bassa da lasciare aperta perlomeno un’incognita qualora gli italiani dovessero domani riscoprire un interesse per la competizione elettorale. A mettere il Pd nell’angolo non è nemmeno la morsa che lo stringe, quella di Giuseppe Conte e Carlo Calenda. Anche se una sorta di cupio dissolvi della subalternità sembra aiutarli, con una parte dei Dem che dopo il voto spinge verso i moderati e un’altra che corteggia un’indefinita sinistra. La partita del soffocamento è stata già giocata nella scorsa campagna elettorale e i Democratici ne sono usciti con le ossa rotte ma ben lontani dal ko che era toccato invece ai socialisti francesi per mano di Emmanuel Macron e di Jean-Luc Melenchon.
Certo la sfida è tutt’altro che finita, anzi è solo all’inizio, ma anche è tutt’altro che scontato che Conte, Calenda e Renzi possano vincerla da soli, senza l’aiuto della quinta colonna dei piedi d’argilla del Partito democratico, che ora ha come prima cosa di fronte lo spettro dell’isolamento in vista delle elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio. Sul ring vale una regola: quando si è colpiti duramente non bisogna cercare di restituire subito il colpo all’avversario. È proprio quello il momento in cui ci si scopre e si subisce il conteggio. Ma c’è un limite e senza dubbio sconcertano i tempi di un congresso che prevede le primarie addirittura il 12 marzo. Sì, va bene, ci sono le regole, lo statuto, c’è un partito che si vanta di essere l’unico che agisce come un collettivo e non come un’azienda padronale, con un capo comunque indiscusso, qualunque cosa accada. Ma è la mancanza di un sussulto che certifichi l’esistenza in vita che sa di decadenza.
Nemmeno la sconfitta del leader, o dei leader, giustifica la situazione. Matteo Salvini ha risollevato la Lega dal baratro in cui era precipitata e l’ha portata a vette inimmaginabili prima del disastro del Papeete e ora ha comunque contribuito a riportare il centrodestra al governo. Silvio Berlusconi fa storia a sé, ma ha un palmares invidiabile di vittorie, sconfitte e rivincite. Giuseppe Conte si ritrova a gestire un’impensabile rinascita quando, appena pochi mesi fa, tutto lasciava credere che i Cinque Stelle fossero irrimediabilmente condannati all’irrilevanza. Lo stesso Matteo Renzi ha dimostrato come la notizia della sua morte elettorale fosse per lo meno esagerata, per non parlare di Giorgia Meloni, che la sua scalata l’ha cominciata a partire dall’1,96 per cento. Il Pd, a quindici anni dalla sua nascita, ha cambiato in media un segretario ogni diciotto mesi, con vicende alterne ha lasciato sul campo da allora sette milioni di elettori, che in quell’occasione iniziale non bastarono per vincere, mentre risultati sempre inferiori negli anni successivi gli hanno comunque garantito lunghi periodi, con poche interruzioni, di permanenza al governo. Che probabilmente è stato il cemento che ha tenuto insieme un amalgama per altri versi fragile, quello tra gli eredi di una parte significativa del Pci e della Dc.
Al congresso comunque si andrà, con il Pd che non sembra per ora intenzionato a liberarsi del male oscuro che già da prima della sua nascita divora i suoi leader. Una vocazione al cannibalismo mai superata. Dai tempi di Romano Prodi, prima vincitore e poi cacciato, poi di nuovo evocato e infine umiliato con i 101 franchi tiratori che vanificarono la sua candidatura al Quirinale. Ma l’elenco è lungo e sotto gli occhi di una storia recente che è praticamente cronaca. Con alcuni dei divorati che non ci stanno e che fanno una scissione o comunque si mettono in proprio. Pier Luigi Bersani che fonda Articolo Uno, Matteo Renzi che crea Italia viva, per qualche verso lo stesso Carlo Calenda, che un po’ sta dentro e un po’ sta fuori e poi battezza Azione. Adesso, in attesa di sviluppi, si vocifera di una piccola truppa di cripto candidati, dietro i quali non è difficile scorgere l’ombra della lunga mano dei capi delle correnti, da molti considerati i veri padroni del partito, sempre pronti a combattere e a trattare per dividersi quel che resta del potere. Al momento anche la ribellione delle donne del Pd, più che giustificata alla luce della loro scarsa presenza tra gli eletti, sembra domata. Davvero è tutto finito con la conquista del ruolo di capogruppo alla Camera e al Senato e con la vicepresidenza a Palazzo Madama e a Montecitorio?
La segreteria di Enrico Letta ha vissuto l’impossibilità di costruire un campo largo che potesse competere con il centrodestra, e nella percezione da parte degli elettori di una sfida che non poteva vincere c’è probabilmente almeno una parte del motivo di un risultato elettorale insoddisfacente. Ma la sconfitta principale pare soprattutto nella non riuscita dello spirito d’esordio, quello che lo ha portato a lasciare Parigi per guidare il suo partito. È l’idea dell’anima e del cacciavite, le due parole che davano il titolo al suo libro, a non aver sfondato, prima nel Pd che nel Paese. Il segretario dimissionario mette in campo un appello in vista del congresso, con l’invito a iscriversi alla fase costituente. Una consultazione aperta a tutti gli aderenti, vecchi e nuovi, per decidere quale strada il Pd dovrà intraprendere. Chi si iscriverà, anche per la prima volta, potrà votare e candidarsi a guidare il partito. Nelle intenzioni si tratta di una campagna senza rete, che sfocerà in primarie aperte, senza un risultato già scritto, per fare in modo che il gruppo dirigente che ne uscirà vincitore non debba fare i conti con le pastoie delle correnti, ma sia legittimato dal voto. Sa un po’ di avventura, addirittura esposta al rischio di Opa ostili, che sembrano comunque meno preoccupanti rispetto alla pratica delle cooptazioni, dei finti unanimismi e dei segretari al guinzaglio. Non è dato sapere se l’operazione riuscirà o se invece, cosa tutt’altro che improbabile, i vecchi metodi avranno il sopravvento. Certo, però, pare l’ultima spiaggia.