Sono sempre di più le donne costrette a lasciare il lavoro perché non riescono a conciliare maternità e vita lavorativa. Quella che dovrebbe essere l’ultima chance invece è una pratica piuttosto diffusa, anzi addirittura in crescita. E allora bisogna chiedersi perché per le donne è ancora conveniente, almeno da un punto di vista strettamente economico e nel breve periodo, rimanere a casa dal lavoro. Nel 2022 le lavoratrici mamme che hanno lasciato il lavoro sono 44.699, come evidenziato dai dati dell’Ispettorato del lavoro, in crescita del 18,7% rispetto al 2021. In dieci anni le dimissioni delle lavoratrici mamme sono più che raddoppiate passando da 18.454 nel 2012 alle attuali 44 mila. Nel corso degli anni le dimissioni sono sempre aumentate fatto salvo che nel 2020, quando la pandemia ha portato a una flessione. Ma appena c’è stata la ripartenza hanno ripreso a crescere. Un altro dato di cui tenere conto è che, malgrado il calo della natalità sia costante negli ultimi anni, le dimissioni delle mamme lavoratrici continuano a crescere.
Aumentano le dimissioni volontarie
Biosogna precisare anche che 44.699 è il dato che si riferisce alle convalide. Se andiamo a confrontare più in dettaglio le modalità, vediamo che per le donne ad aumentare rispetto all’anno precedente sono soprattutto le dimissioni volontarie (+22,3% contro +14,4% per gli uomini). Mentre per entrambi i genere rispetto al 2022 la caduta più significativa si registra nelle risoluzioni consensuali (-44,8% contro -31,9%). Le dimissioni per giusta causa si riducono solo per le donne (-34%) mentre subiscono un leggero incremento (+4,9%) per gli uomini.
Come cambiano le motivazioni in base al genere
Come emerso anche nelle precedenti relazioni, il tema delle motivazioni presenta profonde differenze di genere e, infatti, sulle convalide femminili la motivazione prevalente è la difficoltà di conciliazione tra lavoro e cura del bambino/a: in particolare il 41,7% ha collegato tale difficoltà all’assenza di servizi e il 21,9% a problematiche legate all’organizzazione del lavoro. Le difficoltà legate alla conciliazione tra le esigenze di cura dei figli e la vita lavorativa nel complesso coprono il 63,6% di tutte le motivazioni di convalida addotte dalle lavoratrici madri. Per gli uomini, invece, la motivazione prevalente del recesso è di carattere professionale: il 78,9% ha riferito che la cessazione del rapporto è avvenuta per passaggio ad altra azienda e solo il 7,1% la ha ricondotta ad esigenze di cura dei figli.
Perché il reddito che viene «sacrificato» è quello delle donne
«Il fenomeno va inquadrato tra i diversi problemi che riguardano la partecipazione delle donne al mercato del lavoro – sottolinea Valentina Cardinali, responsabile struttura mercato del lavoro Inapp – . Le donne in genere hanno redditi più basso, per cui nel momento in cui in una famiglia si decide di sacrificare uno dei due redditi perché manca un’alternativa valida (nonni a cui affidare i figli o servizi, ad esempio) inevitabilmente il reddito che viene sacrificato è quello femminile. Quindi spesso la scelta delle dimissioni delle donne è una scelta di convenienza familiare». La normativa inoltre prevede che le donne che lasciano il lavoro entro il primo anno di vita del bambino abbiano la possibilità di accedere alla Naspi. «La misura nasce con una finalità positiva ma poi di fatto si crea un effetto perverso per cui le donne che si dimettono ci rimettono in ogni caso. L’efficacia economica della Naspi, infatti, si esaurisce nel breve periodo. Ma una volta che una donna si è dimessa e di fatto è uscita dal mercato del lavoro fa molta fatica a rientrarvi», continua Cardinali.
Quali interventi servono
«Bisogna intervenire sulle condizioni che a monte rendono più difficile per le donne conciliare lavoro e vita privata – conclude la responsabile struttura mercato del lavoro Inapp – Non basta aumentare i posti negli asili nido, anche se si tratta di un intervento sicuramente utile, se non si interviene sul reddito femminile che continua a essere mediamente più basso di quello degli uomini. Ma anche sul fatto che la presenza femminile è più alta nei settori a più basso reddito e che le donne hanno più contratti precari rispetto agli uomini».